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Il 25 novembre scorso, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha firmato lo "Spurring Private Aerospace Competitiveness and Entrepreneurship Act of 2015" o più semplicemente Space Act 2015. La legge si muove essenzialmente su due binari. Da un lato sceglie di non regolare il mercato dei lanciatori spaziali, così da lasciare carta bianca alle diverse aziende americane del settore che rimangono libere di crescere, dall’altro introduce per la prima volta la possibilità di utilizzare i corpi celesti a fine minerario e ricavarne un guadagno.

 

 

Nel campo dei lanciatori, in particolare, lo Space Act 2015 sceglie di non prendere alcune importanti decisioni riguardo le responsabilità in caso di incidente e di danni verso terzi, e inoltre estende al 2025 «periodo di apprendimento» dell’organo che controlla lo spazio aereo statunitense, la Federal Aviation Administration (FAA), rimandando così la creazione di nuovi regolamenti.

Se per quanto riguarda il settore dei veicoli spaziali siamo di fronte a una scelta che ha conseguenze soprattutto sul fronte interno, sullo sfruttamento delle risorse minerarie, invece, lo Space Act potrebbe aprire ad un lungo e complesso dibattito internazionale.

In dettaglio la legge recita che «un cittadino americano impegnato nel recupero di risorse da un asteroide o dallo spazio ha il diritto di possedere, trasportare, vendere, usare qualsiasi risorsa ottenuta in osservanza alle leggi vigenti e agli obblighi internazionali statunitensi». Si tratta di una formula che, secondo alcuni critici, appare in contrasto con l’art. II del trattato fondamentale dello spazio, l’Outer Space Treaty (OST) del 1969, di cui gli Stati Uniti sono parti contraenti, che vieta l’appropriazione nazionale dei corpi celesti.

Nelle settimane scorse, inoltre, anche il Lussemburgo ha annunciato una legge con caratteristiche simili allo Space Act americano. Il vice Primo Ministro e Ministro dell’Economia del granducato Étienne Schneider ha detto in proposito che «l’obiettivo è consentire l’accesso a risorse minerali inesplorate che si trovano su rocce senza vita che vagano nello spazio, senza danneggiare gli habitat naturali». Inoltre, ha aggiunto, che il Lussemburgo vuole sostenere «lo sviluppo economico a lungo termine di attività nuove e innovative nel settore dello spazio e in quelli collegati, considerati fondamentali per il Paese». Sul tema è intervenuto anche il numero uno dell’Agenzia Spaziale europea (ESA) Jan Worner, che nella conferenza di preparazione alla prossima ministeriale tenutasi a Roma lo scorso 5 febbraio ha detto di «comprendere la scelta del Lussemburgo, dove esistono aziende legate a società spaziali americane».

 

Il prof. Sergio Marchisio.



Abbiamo parlato dei risvolti legali dello Space Act 2015 con il Professor Sergio Marchisio, ordinario di Diritto Aerospaziale e Diritto Internazionale presso l’Univesità la Sapienza di Roma, membro del CdA dell’Agenzia Spaziale Italia (ASI) e uno dei massimi esperti internazionali in materia.



Il nodo più grande sollevato dallo Space Act 2015 è la sua compatibilità o meno ai trattati internazionali. Quali sono le principali criticità?

Nello Space Act 2015 ci sono alcune ambiguità di fondo in quanto, da un lato, gli Stati Uniti tutelano i diritti di proprietà sulle risorse minerali degli asteroidi estratte da privati, ma, dall’altro, ribadiscono di non avanzare pretese di sovranità sui corpi celesti. L’ultima disposizione dell’Act contiene infatti un disclaimer con il quale gli Stati Uniti ribadiscono che nessuna disposizione costituisce base per reclami di sovranità sulle risorse naturali dei corpi celesti e che essi non intendono violare gli obblighi internazionali di cui sono titolari. Ricordiamo che l’OST del 1969 vieta all’art. II l’appropriazione nazionale dello spazio e dei corpi celesti, per via di occupazione o con ogni altro mezzo.

 

 

Siamo quindi di fronte ad una legge contraria ai trattati internazionali?

Sul punto esistono due scuole di pensiero. Secondo la prima, lo Space Act 2015 sarebbe in contrasto con il principio sancito dall’art. II dell’OST, che vieta l’appropriazione dello spazio e dei corpi celesti «by any other means», cioè in qualsiasi forma. Al contrario, altri si appellano alla «libertà di esplorazione e uso» delle risorse spaziali stabilita dall’art. I dello stesso Trattato. Il regime giuridico dello spazio, compresi la luna e i corpi celesti, quale delineato dall’OST, è quello di una res communes omnium, un bene comune comparabile in parte al regime dell’alto mare sulla Terra. Come nelle acque internazionali esiste la libertà di pesca e di appropriazione delle risorse naturali a scopi di lucro, così sarebbe lecito appropriarsi nello spazio delle risorse minerarie degli asteroidi, che, si dice, sono una risorsa inesauribile. In realtà, siamo di fronte ad una situazione giuridica più complessa, in cui le facili analogie non sempre sono valide. Rispetto all’alto mare, infatti, c’è da sottolineare una differenza. Nel mare internazionale, il regime di libertà si applica solo alla superficie, alla colonna d’acqua e alle risorse ivi contenute, mentre i fondali marini al di là delle giurisdizioni nazionali non sono considerati res communes omnium, ma patrimonio comune dell’umanità (common heritage of humankind). Per sfruttarne le risorse minerarie è necessario passare per un iter di approvazione e concessione da parte dell’Autorità internazionale dei fondi marini secondo la Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982. Si tratta di un sistema complesso, una sorta di partnership pubblico-privato, in cui una parte dei benefici va alla collettività e una parte all’operatore privato, frutto di un difficile compromesso raggiunto con l’Accordo di New York del 1994, che ha modificato la Convenzione dei Montego Bay del 1982 nella parte relativa alla Zona internazionale dei fondi marini e al suo sfruttamento. Prima di tale revisione, che ha messo un pò tutti d’accordo, molte Nazioni avevano reagito al regime collettivistico della Convenzione del 1982 adottando unilateralmente leggi nazionali per lo sfruttamento delle risorse dei fondi oceanici, scatenando una sorta di effetto domino. Non vorrei che si ripetesse lo stesso per lo sfruttamento delle risorse minerarie dei corpi celesti, con il moltiplicarsi di legislazioni unilaterali ed extraterritoriali tipo la Space Act 2015. Nel caso delle risorse lunari e dei corpi celesti non è stato messo in piedi un sistema di sfruttamento simile a quello dei fondali oceanici, anche se l’Accordo sulla luna del 1979 (accettato solo da 16 Stati) prevede che se ne discuta quando lo sfruttamento delle risorse lunari risulti fattibile. In conclusione, penso che gli Stati non debbano procedere unilateralmente ad adottare leggi extraterritoriali che tutelano diritti di proprietà privata sulle risorse estratte dai copri celesti, come lo Space Act 2015, ma debbano coordinarsi a livello internazionale per evitare sovrapposizioni di pretese e possibili conflitti.



Che cosa si intende per uso nello Spazio?

Il concetto di uso è legato alle attività nazionali che i singoli Stati realizzano nello spazio, sulla luna e i corpi celesti. Nello svolgere attività di telerilevamento o di navigazione satellitare, nel posizionare satelliti in orbita, nel raccogliere materiali per scopi scientifici, nell’inviare sonde su Marte, gli Stati “usano” lo spazio e i corpi celesti. L’uso deve però essere responsabile, preservando il diritto degli altri di fare lo stesso. C’è da chiedersi se il concetto di uso implichi anche lo sfruttamento commerciale e il riconoscimento di diritti di proprietà sulle risorse naturali come fa lo Space Act. Se invece del diritto di proprietà, la legge avesse riconosciuto un diritto d’uso, probabilmente se ne sarebbe parlato meno. In questo caso, infatti, si sarebbe ipotizzata una situazione simile a quanto avviene con lo sfruttamento di cave e miniere all’interno dei confini statali, dove non viene ceduta la proprietà, ma solo i diritti di utilizzazione delle risorse estratte. Nel caso della miniere si parla di concessione, e il guadagno viene riconosciuto in seguito all’investimento effettuato. Chris Lewicki, capo ingegnere di Planetary Resources, una delle aziende che vuole estrarre minerali dagli asteroidi, ha detto che lo Space Act è comparabile all’Homestead Act del 1862 con cui gli Stati Uniti diedero avvio alla presa del West. Siamo di fronte ad una dinamica simile?



Chris Lewicki, capo ingegnere di Planetary Resources, una delle aziende che vuole estrarre minerali dagli asteroidi, ha detto che lo Space Act è comparabile all’Homestead Act del 1862 con cui gli Stati Uniti diedero avvio alla presa del West. Siamo di fronte ad una dinamica simile?

No, perché tutte le attività spaziali, anche private, devono essere autorizzate da uno Stato (art. VI OST). In sostanza esistono regolamenti, legislazioni, standard da rispettare. Lo stesso Space Act prevede che entro 180 giorni dalla firma il Presidente debba emanare le regole specifiche con cui i privati, non solo americani, possano chiedere le licenze e le concessioni. Finora non abbiamo visto nulla, anche perché l’amministrazione americana sta entrando in una fase di transizione in attesa delle nuove elezioni. Insomma, una corsa “privata” all’accaparramento delle risorse dello spazio non è pensabile.

 

Un’infografica di Planetary Resources sui possibili risvolti del mining spaziale.



Che reazioni hanno avuto le altre potenze spaziali?

Lo Space Act 2015 è una legislazione a carattere extraterritoriale che riconosce i diritti di proprietà e sfruttamento di risorse minerarie spaziali a soggetti privati. Gli Stati Uniti sono molto adusi alle legislazioni extraterritoriali, che spesso hanno adottato. In questo caso hanno legiferato su qualcosa che sta nello spazio, come quando adottano sanzioni verso società soggette alla giurisdizione di altri Stati, oppure impongono limiti alle esportazioni di determinati prodotti verso Stati terzi. Quando si adotta una legislazione extraterritoriale, questa può venire a collidere con legislazioni simili emanate da altri Stati. Se tutti adottano legislazioni unilaterali di questo tipo può nascere un conflitto, una sovrapposizione, e quindi la necessità di un coordinamento. Paesi come il Brasile e la Cina non saranno certo soddisfatti di questa legge americana. Potranno adottare una loro legge simile o chiedere un coordinamento internazionale. Io auspico un maggiore dialogo al riguardo. Nello spazio si cerca di utilizzare sempre la cooperazione e la collaborazione, spero che anche in questo caso avvengo lo stesso.



Lo Space Act getta un sasso nello stagno dei trattati internazionali. E’ ora di rivedere i trattati che regolano lo Spazio?

Certamente la legislazione americana apre una novità in un mondo ingessato. Ed, inoltre, i trattati sono per forza di cose invecchiati. Non prevedono molte aspetti oggi attuali, che all’epoca era anche difficile immaginare, come ad esempio il volo suborbitale. Inoltre, tra l’OST del 1967 e il Trattato sulla Luna del 1979 ci sono degli elementi che vanno armonizzati, perché in contrasto tra loro. Tuttavia c’è una difficoltà nell’opera di rivederli, perché mancano gli strumenti. Facciamo l’esempio del clima, dove nonostante le difficoltà è stato creato il meccanismo della conferenza delle Parti (COP). Magari si decide poco, ma in ogni caso si riesce a parlarne a livello internazionale come accaduto a Parigi a novembre 2015. Nel caso dello spazio, ci vorrebbe l’iniziativa di qualche paese lungimirante che proponesse una conferenza degli Stati che sono Parti contraenti dell’OST per discutere aspetti problematici della sua applicazione, esigenze di revisione derivanti dal trascorrere del tempo e dall’evoluzione tecnologica. I comitati dell’ONU che si occupano di spazio, come il COPUOS, sono ingessati, perché decidono in base alla regola del consenso che è molto limitante in quanto concede a ciascun membro un diritto di veto.



L’Europa e l’Italia possono avere un ruolo in questo?

Anzitutto credo che l’Europa stia vivendo un momento molto difficile e che questo si riverberi anche nelle questioni relative allo spazio. Poi vi sono problemi specifici derivanti da alcune deficienze tecniche dell’Unione europea (UE). La Commissione europea è proprietaria delle costellazioni Galileo e Copernicus ma non ha le strutture di controllo, ed è quindi costretta ad appoggiarsi all’ESA. Per questo sono convinto che la cultura spazialistica dell’UE debba migliorare. Inoltre l’ESA, dal canto suo, è un ottimo strumento di cooperazione, ma non sempre va d’accordo con la Commissione. Con la stagione poco propensa all’integrazione, l’idea di maggiori rapporti tra i due enti non sta decollando. Da un punto di vista giuridico, poi, una reazione comune europea sullo Space Act è impossibile perché l’articolo 189 del Trattato di Lisbona non consente alla Commissione di legiferare sul tema spaziale. Se ci sarà una reazione, sarà dei singoli Stati. E pertanto l’Italia deve seguire con attenzione quanto sta accadendo, perché, anche senza adottare una legge, dovrà esprimere la sua posizione e rimanere nel gruppo dei paesi che vogliono avere voce in capitolo sull’argomento.

Alessandro Iacopini

Fonte: http://www.flyorbitnews.it

 


 

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