Dal 2014 al 2016 centinaia di campioni di organismi sono stati esposti alle condizioni che si possono incontrare su Marte, o in generale nello spazio, mentre erano a bordo della Stazione spaziale internazionale. I risultati del progetto vengono presentati oggi a Berlino.
di Paolo Soletta
Il pallino che infervora le menti degli astrobiologi è sempre quello: è esistita, esiste o esisterà vita extraterrestre? Se su passato e presente abbiamo dubbi ancora insuperati, sul futuro esistono promettenti possibilità, sia di osservazione di vita aliena che di esportazione di quella terrestre su altri pianeti.
Per capire se possa esistere vita, così come noi la conosciamo, nelle nostre (possibili) future colonie occorrerà sperimentare a lungo, sottoponendola a condizioni estreme, esattamente come ha fatto BioMex – acronimo di “Biology and Mars Experiment” – ambizioso progetto nato dalla collaborazione tra Esa e Roscosmos (l’agenzia spaziale russa) e coordinato dalla Dlr (Deutsches Zentrum für Luft- und Raumfahrt, che di fatto è l’agenzia spaziale tedesca). Progetto i cui risultati vengono presentati a partire da oggi, mercoledì 27 marzo, in una conferenza conclusiva a Berlino. Intanto la scienza prodotta è stata notevole: ben 42 studi pubblicati su riviste scientifiche.
Dal 2014 al 2016 BioMex ha utilizzato la Stazione spaziale internazionale (Iss) per sottoporre batteri, alghe, licheni e funghi (ma anche membrane cellulari e pigmenti) a tre diverse condizioni: il vuoto, le intense radiazioni ultraviolette provenienti dal Sole e, infine, le variazioni estreme di temperatura all’esterno della stazione stessa. Grande lavoro, dunque per gli astronauti con continue passeggiate fuori dalla stazione? Niente affatto: hanno semplicemente preso i campioni e li hanno messi fuori dalla porta per la bellezza di 533 giorni.
La resistenza osservata su queste forme di vita ha stupito non poco gli stessi coordinatori della ricerca, come l’astrobiologo Jean-Pierre Paul de Vera del Dlr Institute of Planetary Research di Berlino. «Alcuni degli organismi e delle biomolecole», dice lo scienziato, «hanno mostrato un’enorme resistenza alle radiazioni nello spazio e sono effettivamente tornati sulla Terra come dei “sopravvissuti”. Tra le altre cose, abbiamo studiato gli archei, che sono microrganismi unicellulari esistiti sulla Terra per oltre tre miliardi e mezzo di anni, vivendo in acqua salata. Questi microrganismi unicellulari potrebbero essere candidati a forme di vita che potrebbero essere trovate su Marte».
«Ovviamente, questo non significa che la vita esista davvero su Marte», precisa De Vera. Quelle che finora sono state trovate sono solamente precondizioni che fanno ben sperare, ma nulla più: una debole atmosfera, la presenza di carbonio, ossigeno, azoto, zolfo e fosforo – oltre alla presenza di acqua ghiacciata, un tempo quasi certamente liquida. Ma di vita e processi metabolici, al momento, nemmeno l’ombra.
I campioni sottoposti all’esperimento a bordo della Iss, dopo la lunga esposizione in orbita a 400 km di altezza, sono stati riportati a terra il 18 giugno 2016 a bordo di un veicolo spaziale Soyuz. Da quel momento ben 30 istituti di ricerca in 12 paesi di tre continenti li hanno esaminati sotto ogni aspetto per oltre due anni, e ne presentano i risultati in modo unitario, come abbiamo detto, da oggi a venerdì nella capitale tedesca.
Un altro obbiettivo raggiunto da BioMex consiste nell’aver messo a punto una serie di sensori in grado di riconoscere i processi metabolici della vita come la spettroscopia Raman, con la quale «possiamo esaminare i campioni sulla superficie di Marte da un rover, in modo non distruttivo e senza dover entrare in contatto con essi», spiega Ute Böttger del Dlr Institute of Optical Sensor Systems. «I raggi laser fanno vibrare le molecole, i cui diversi modelli vibrazionali possono essere utilizzati come impronte digitali distintive per identificarle».
BioMex promette notevoli avanzamenti tecnologici e scientifici in vista delle prossime missioni come Exomars 2020 dell’Esa, in quanto potrà consentire di ampliare il database dei “biomarcatori” finora individuati dalle precedenti missioni.
Fonte: https://www.media.inaf.it