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L’isola di Sriharikota, un tempo Telugu in lingua Tamil, è un’area umida e isolata che affaccia sul Golfo del Bengala, parte del distretto indiano dell'Andhra Pradesh, secoli fa prospera regione dell’impero Vijayanagara. La notorietà del posto non è dovuta alla sua storia o alla natura tuttavia, ma alla presenza in questo luogo del centro spaziale Sriharikota Range, sito di due piattaforme di lancio operative fin dagli anni ’70. È da qui che, lo scorso 2 aprile, è stato lanciata la “missione Shakti”, esperimento controverso che ha portato alla distruzione di un satellite che stava orbitando a 300 chilometri dalla superficie terrestre.

Con questo test antisatellite l’India, secondo il suo primo ministro Narendra Modi, è diventata ufficialmente una “potenza spaziale”, dimostrando di padroneggiare una tecnologia balistica di precisione che al momento sembrano possedere solo Russia, Cina e Stati Uniti.

Molto più critica al riguardo l’opinione della Nasa, che ha definitivo l’esperimento “una cosa terribile” e ha denunciato la messa in pericolo della stazione spaziale internazionale (ISS), a causa dei detriti generati dall’esplosione. Agli occhi degli analisti questa preoccupazione per l’ISS sembra eccessiva; i frammenti del satellite distrutto infatti sono ad un’orbita troppo bassa per rimanere nello spazio e quasi sicuramente si distruggeranno a contatto con l’atmosfera terrestre nel corso delle prossime settimane. Ciò nonostante la sensazione trasmessa dal comunicato stampa americano coglie nel segno il messaggio di scetticismo e sfiducia che Washington voleva lanciare all’indirizzo di Nuova Delhi, e non solo. Ad essere coinvolti nella questione del lancio balistico infatti sono due piani differenti e paralleli: uno riguarda in particolare l’India e il suo ruolo regionale attuale e futuro, mentre il secondo va a toccare direttamente il nuovo interesse per lo spazio che ha interessato la geopolitica negli ultimi venti anni, ossia da quando l’information techonology ha iniziato a giocare un ruolo nelle nostre vite.

Prendendo in considerazione il primo punto si può partire dall’assunto che l’India sia, ormai chiaramente, una potenza in ascesa. Il suo attuale primo ministro, il nazionalista Narendra Modi, eletto nel 2014 e attualmente sotto elezioni, sta da tempo puntando gran parte della propria credbilità sulla riscoperta di un rinnovato senso d’orgoglio nazionale, provando a trasmettere, anche al proprio elettorato, un’immagine muscolare di un’India pronta a cogliere l’opportunità di una leadership regionale alla sua portata. Il massiccio programma di investimenti militari nel campo marittimo e aereonautico sono una testimonianza di questa ritrovata ambizione. In questo caso non si parla solo della portaerei da 40.000 tonnellate Vikrant (foto), attesa per il prossimo anno, ma di un intero piano multimiliardario che si pone l’obiettivo di creare per la prima volta una fiorente industria nazionale delle Difesa, concentrando lo sviluppo e la realizzazione di armamenti nelle mani dello Stato e, di conseguenza, limitando la dipendenza dall’estero.

 



Oltre alla portaerei sopracitata, esempi di questi programmi sono gli elicotteri made in India Dhruv (ne sono stati ordinati 28 entro il 2020), i sommergibili nucleari Arihant (parte di un ordine di un ordine di 25 sommergibili, nucleari e convenzionali, attesi entro il 2021) e le 7 fregate Shivalik-17A (in progettazione con l’aiuto di Fincantieri). Il governo indiano può permettersi questi investimenti, che capitalizzano a livello strategico la crescita economica esponenziale del Paese, che viaggia da diversi anni ad un ritmo del +6% del Pil annuo. In questo contesto il Pakistan, storico rivale dell’India e unica altra potenza atomica regionale, sembra sempre più distaccato dal suo vicino, sia in termini di potenza economica che militare.

 

Questo distacco ha ormai volto il conflitto del Kashmir in una sorta di confronto tattico utile per misurare le nuove potenzialità indiane: solo due anni fa ad esempio, in un momento di particolare tensione a seguito di alcuni attacchi suicidi, le forze armate di Nuova Delhi sono riuscite a passare inosservate il confine pakistano per un’“operazione chirurgica” contro obiettivi sospettati di terrorismo, concludendo l’operazione prima che l’esercito di Islamabad potesse reagire. Lo scorso febbraio invece è stato il Pakistan ad abbattere un aereo indiano che stava sorvolando il suo spazio aereo, probabilmente per un test di tecnologia stealth. Non è quindi un caso che, a fronte di questa situazione, Modi abbia voluto ribadire con l’esperimento spaziale le capacità tecnologiche del Paese e le sue crescenti potenzialità balistiche, anche in vista di un’interlocuzione diplomatica con il Pakistan che quasi certamente coinvolgerà Pechino, e quasi sicuramente escluderà Washington. Le perplessità americane però non riguardano solo la sua marginalizzazione in queste dinamiche locali e regionali, o il lento e inesorabile avanzare della diplomazia del dragone verso ovest. Quel che preoccupa ancora di più gli Stati Uniti è plausibilmente invece la crescente attenzione verso lo spazio da parte del così detto gruppo dei “BRIC”.*

A guidare questa nuova ondata di interesse è naturalmente la Cina, la quale sta investendo sempre maggiori risorse per relizzare una dispendiosa strategia stellare dual use, ossia con scopi sia civili che militari. Per ora la creazione di una stazione spaziale autonoma e l’esplorazione della luna sono i traguardi più prossimi attesi a Pechino, ma si deve considerare che la potenza asiatica sta diventando, molto velocemente, uno dei più attivi protagonisti di lanci in orbita nel mondo (soprattutto satelliti, ma non solo). Nel solo 2018 dalle basi del deserto del Gobi ci sono stati ben 35 lanci, alcuni dei quali per conto di Stati terzi, come l’Arabia Saudita. Subito dopo viene l’India, che sta pianificando miliardi di investimenti, e lo stesso Brasile che, seppur nelle sue modeste risorse, sta oggi scoprendo un nuovo attivismo per il settore satellitare, soprattutto per uso commerciale (ma in cooperazione con gli Stati Uniti). Il settore è quindi in espansione e, tornando a Nuova Delhi, si deve riconoscere come in un mondo così dipendente dai ripetitori in orbita non si possa sottovalutare nè la capacità di un attore di lanciare satelliti o altre componenti, incrementando le proprie capacità, nè di distruggere le installazioni avversarie nello spazio, rendendo quindi vana la tecnologia dalla quale stiamo tutti diventando dipendenti. E se oggi il mercato spaziale civile vale centinaia di miliardi di dollari, gli effetti a catena che esso ha sull’economia e sulla società (occidentale ma anche sempre più orientale) è quasi inestimabile.

Queste considerazioni sono del resto le stesse che hanno portato Trump ad annunciare lo scorso anno la creazione di una Space Force indipendente dalle altre forze armate americane (vedere articolo). Lo scenario globale, così brevemente delineato, ci induce a porci diverse domande sulla nostra posizione (e vulnerabilità) non solo come Italia, ma come Unione Europea. Purtroppo dobbiamo riconoscere che la storia dell’ESA, pur di assoluto prestigio e successo, è sempre stata contraddistinta dalla limitazione di non poter sviluppare strategie degne di nota nel campo della sicurezza spaziale, essendo il mandato dell’agenzia limitato all’esplorazione scientifica e allo sviluppo civile. Il risultato è che, ancora oggi, è responsabilità dei singoli Stati membri immaginare una risposta militare a questa sfida spaziale, mettendo in atto della contrimisure che, tuttavia, sono così complesse e costose che non potranno essere mai sviluppate a livello nazionale.

La provocazione indiana dovrebbe spingerci, se non altro in occasione di queste elezioni europee alle porte, a prendere in considerazione i mutamenti geopolitici globali, per tutelare i nostri interessi in scenari che si fanno sempre più complessi.

*Acronimo per Brazil, Russia, India and China; considerati gli Stati emergenti del millennio.

Fonte: http://www.difesaonline.it

 

 

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