La curiosità e la voglia di esplorare hanno sempre contraddistinto l’animo umano e, con tali spinte, l’umanità ha trovato il coraggio di superare la paura dell’ignoto, i pericoli reali e il terrore dei mostri immaginari che popolavano la mentalità collettiva. Intrepidi navigatori dell’ignoto hanno affrontato incredibili tempeste e bonacce interminabili, oltrepassando confini impensabili per un’epoca in cui tutti credevano che si dovesse cadere nel vuoto una volta raggiunta l’estremità del mondo. Superarono dapprima le colonne d’Ercole, poi andarono sempre più in là, fino al continente americano e, dopo aver superato mille difficoltà e pericoli, hanno circumnavigato il globo. Cristoforo Colombo, Vasco da Gama, Bartolomeo Diaz, Ferdinando Magellano hanno permesso di disegnare le mappe di un mondo completamente nuovo e le conoscenze scientifiche hanno cominciato a progredire realmente quando si sono aperte le vie marittime che avrebbero collegato i quattro angoli della Terra. I progressi raggiunti nella navigazione marittima, infatti, hanno permesso all’umanità di ampliare enormemente le conoscenze su questo nostro pianeta e di diffondere le nozioni, le culture e le idee. La grande maggioranza delle popolazioni della Terra oggi ha impressa nella mente l’immagine completa e in scala del nostro pianeta. Oggi tutti sappiamo che quando in Europa sorge il sole, negli Stati Uniti è ancora notte o che quando da noi è estate, nel sud del mondo è inverno. Il mondo è ormai diventato un villaggio globale i cui abitanti, giorno dopo giorno, aumentano la reciproca dipendenza. Eppure, qualche secolo fa ciò non era scontato e il percorso per giungere a oggi non è stato facile.
La navigazione antica.
Ai primordi della vita dei popoli il mare rappresentò una barriera al di là della quale vi era l’ignoto. Tuttavia, sotto la spinta della curiosità, della voglia di esplorare, ma anche della fame, della necessità di riprodursi, dell’esigenza di trovare nuove risorse, l’uomo affrontò incognite e pericoli, scoprendo nuove terre e nuovi popoli al di là del mare e allacciando i primi traffici marittimi che, con il progredire delle costruzioni navali, si allargarono sempre più. Al tempo della marina remica fiorirono nei mari chiusi i traffici a carattere principalmente costiero. La marina remica poteva, infatti, dirsi un mezzo “casalingo” di navigazione. Le navi erano legate alla costa, avevano scarsa capacità nautica e non erano adatte a lunghe traversate in mare aperto. Per tali motivi dovevano navigare in maniera non continuativa e subordinatamente alle condizioni meteorologiche e alla lunghezza delle distanze da percorrere. Fu così che le navi prendevano il mare durante “la buona stagione” e la navigazione diurna avveniva prevalentemente tramite il riconoscimento delle caratteristiche della costa (monti, paesi, torri di avvistamento, golfi, ecc…) e la navigazione notturna guardava alle stelle per capire se la rotta era quella giusta. Le comunicazioni marittime del tempo permisero comunque la diffusione delle conoscenze e un ragionevole volume di traffico di merci preziose e poco pesanti, che influenzarono notevolmente la crescita dei popoli marittimi, e non solo. Il desiderio di conoscere e di esplorare il mondo sempre più lontano permisero successivamente di sviluppare tecniche di costruzione navale idonee ad affrontare il mare aperto e i maggiori pericoli ad esso correlati. Lo sviluppo della marina velica, grazie a un metodo di propulsione instancabile e completamente gratuito come il vento, segnò l’inizio della corsa alle rotte oceaniche, lungo le quali le coste non erano visibili per giorni e giorni. Il graduale affermarsi della vela applicata agli scafi d’altura ha, infatti, permesso ai navigatori di dilagare nel mondo. Le unità avevano maggiore autonomia e maggiore capacità di carico e, dato il carattere più economico del trasporto via mare, principio sostanzialmente valido ancora oggi, ciò segnò anche l’inizio di una reale prosperità per i popoli continentali. Tuttavia, la lontananza dalla costa e la mancanza di punti di riferimento certi fu per molto tempo un problema per i navigatori, che seguivano le rotte più a memoria e in maniera istintiva che con la certezza matematica della loro posizione, intesa come preciso punto geografico identificato da latitudine e longitudine. Nell’emisfero nord, per esempio, durante l’arco notturno la latitudine era facilmente conosciuta misurando l’”altezza” della stella polare, ovvero l’angolo formato tra la direzione dell’orizzonte marino e la direzione della stella, consentendo al navigatore di conoscere direttamente la propria latitudine. All’equatore, infatti, l’altezza della polare è pari a zero in quanto è osservabile sulla linea dell’orizzonte, e aumenta al crescere della latitudine fino al polo nord, dove la sua altezza è massima e pari a 90° (sopra la nostra testa). Ciò era possibile impiegando degli strumenti ottici idonei a misurare gli angoli tra due oggetti, che si sono piano piano evoluti fino ad arrivare, alla fine del XIX secolo, al sestante marino. Tramite alcuni specchi che riflettevano la luce dell’astro e idonei dispositivi per la lettura dell’angolo si misurava, appunto, l’altezza di un qualunque oggetto/astro sull’orizzonte. Tuttavia, il continuo movimento della nave rendeva difficoltosa l’osservazione e, quando il cielo era nuvoloso o in presenza di nebbia, era praticamente impossibile effettuare la misurazione. Il calcolo della longitudine, invece, per molto tempo rappresentò il maggiore problema nautico, in quanto non era direttamente deducibile dalle osservazioni stellari, perché la longitudine è strettamente collegata all’orario. Poiché la Terra compie un’intera rotazione di 360 gradi in 24 ore, avere 15 gradi di differenza di longitudine significa aumentare o diminuire di un’ora l’orario rispetto al punto di riferimento. Conoscere la differenza di orario a cui si verifica lo stesso fenomeno astronomico in due località diverse rende, quindi, possibile calcolare la differenza di longitudine. Quella differenza di tempo, misurato in ore, minuti e secondi ha, infatti, un’equivalenza in longitudine e rappresenta, quindi, la differenza di longitudine tra il punto noto e la propria posizione. Il discorso teorico è, tutto sommato, abbastanza semplice, ma la sua applicazione pratica non era priva di difficoltà tecniche, vista la tecnologia del tempo. Per fare dei calcoli precisi, infatti, era indispensabile assicurare la precisione dell’orario a bordo delle navi, altrimenti i dati non sarebbero stati veritieri. Gli orologi a polvere (il termine “clessidra” in italiano può talvolta indicare anche il tipo ad acqua) venivano impiegati solo per scandire la vita di bordo (cambio della guardia, pasti, ecc…) e gli orologi da tasca non erano idonei al calcolo della longitudine perché non assicuravano la necessaria precisione. L’indeterminatezza della longitudine, quindi, talvolta causava la drammatica fine della navigazione con naufragi, per via del fatto che la posizione effettiva non era quella ipotizzata. Il 22 ottobre 1707, per esempio, quattro navi da guerra britanniche affondarono perché avevano calcolato di essere ancora in mare aperto, mentre invece durante la notte si sono trovate improvvisamente sulle coste delle isole Scilly, a circa 45 km a sudovest della Cornovaglia. L’incidente causò la perdita di circa duemila marinai. Il calcolo esatto della longitudine fu possibile solo dopo che l’inglese John Harrison, un genio della meccanica, nel 1764 inventò il cronometro, ovvero un orologio preciso e portatile che non risentisse, per esempio, delle variazioni di temperatura o delle accelerazioni dovute al movimento della nave. Ciò rappresentò un vero e proprio punto di svolta per l’arte della navigazione. L’importanza della precisione dell’orario diventò tale che in navigazione fu istituito un servizio di guardia appositamente per controllare che il cronometro fosse sempre in funzione. Per la cronaca, l’invenzione di Harrison venne notevolmente avversata e solo dopo alcuni anni egli riuscì ad ottenerne il pieno riconoscimento … e parte del sostanzioso premio. Per secoli, le osservazioni degli astri sono state l’unico modo per calcolare la posizione in mare aperto, anche dopo l’avvento e la rapida diffusione della propulsione meccanica e dei successivi rapidi progressi tecnologici. Anche la navigazione aerea, infatti, impiegava sostanzialmente gli stessi strumenti di osservazione e misurazione delle altezze degli astri utilizzati dalle navi, attraverso un cupolino per le osservazioni, con l’aggiunta di opportune tabelle di correzione per le quote di osservazione, non tenendo conto delle quali i dati raccolti sarebbero stati falsati e il risultato finale sarebbe stato significativamente alterato. Fino alla produzione degli apparati di navigazione radioelettrici.
La navigazione nel XX secolo.
La scoperta della radio, infatti, non fu innovativa solo per il settore delle telecomunicazioni, ma ebbe importanti implicazioni anche sulla navigazione marittima e aerea. Nel XX secolo si sono, infatti sviluppati numerosi sistemi di radionavigazione che sfruttano la ricezione di impulsi radioelettrici provenienti da varie stazioni trasmittenti poste in posizioni fisse e note. Hanno fatto, quindi, la loro comparsa, tanto per citarne un paio tra quelli più conosciuti, i sistemi a bassa frequenza Loran (LOng RAnge Navigation) e Decca. Il principio di funzionamento del sistema Loran si basava sulla differenza di tempo nella ricezione tra i segnali trasmessi da due stazioni radio emittenti. Sulle carte specifiche era poi possibile individuare il punto nave. Il sistema Decca impiegava il principio della differenza di fase dei segnali emessi dalle stazioni a terra. A differenza del Loran, in cui le stazioni trasmettevano a impulsi, nel Decca le stazioni emettevano frequenze continue e ciò, se da un lato il Decca aveva una portata efficace inferiore al Loran, dall’altro permetteva di ottenere una posizione più precisa. Anche per la navigazione aerea le radioassistenze a terra (VOR, NDB, TACAN, ILS, MLS, ecc…) hanno rappresentato e talune tuttora rappresentano un ausilio indispensabile per conoscere la propria posizione. Alcuni sistemi forniscono dati di posizione su tre dimensioni (quindi anche con dati relativi alla quota), contribuendo alla sicurezza complessiva della navigazione aerea e a fornire informazioni più complete ai piloti circa la loro posizione nello spazio tridimensionale. Questi sistemi di localizzazione e radionavigazione richiedono la presenza di stazioni trasmittenti dislocate a terra e, quindi, è necessario averne in numero significativo per permettere di avere una copertura globale, tenuto conto dei vincoli orografici e di potenza in emissione. Stante l’utilità di tutti questi sistemi, la continua ricerca di nuovi modi per avere dati di posizione sempre più precisi ha portato alla produzione di sistemi di posizionamento globale, che sfruttano una rete con un limitato numero di satelliti in orbita per inviare dei segnali radio che vengono decodificati da un piccolo apparato elettronico che ci fornisce direttamente la rappresentazione grafica della nostra posizione sulla superficie terrestre e i dati di latitudine e longitudine, senza bisogno che noi effettuiamo calcoli matematici. Fa tutto l’apparato elettronico. Tali sono, per esempio, il NAVigation Satellite Timing And Ranging Global Positioning System (NAVSTAR GPS), che tutti conosciamo come GPS, inventato dagli USA, il russo GLObal'naja NAvigacionnaja Sputnikovaja Sistema (GLONASS), il cinese BeiDou o il sistema GALILEO, sviluppato dall’Unione Europea in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Europea.
La prossima navigazione stellare.
La voglia di esplorare, che ha portato l’umanità a viaggiare per vedere cosa ci fosse al di là di quelle distese liquide rappresentate dai mari e dagli oceani del mondo è rimasta inalterata. La curiosità e il desiderio di sapere, che in passato ci hanno permesso di superare le paure ataviche e di avventurarci nell’ignoto, ora ci spingono verso le stelle. La ricerca di altre forme di vita intelligente, il desiderio di capire i meccanismi dell’universo o la ricerca di nuovi mondi dove, magari in un futuro molto lontano, poter fondare delle colonie umane, proprio come gli antichi navigatori dell’ignoto, trovano sostegno economico prevalentemente nelle motivazioni di chi guarda allo spazio per l’approvvigionamento di materie prime o per questioni di difesa e sicurezza. Prima o poi, l’umanità avrà la tecnologia per fare il balzo epocale e lanciare equipaggi verso mete spaziali sempre più lontane. Viaggi esplorativi e scientifici con cosmonauti, già oggi prefigurati da numerosi film o serie tv di fantascienza. Da quando è cominciata la navigazione abbiamo sempre guardato al cielo per conoscere la nostra posizione e sapere, quindi, quale rotta seguire. Anche la navigazione delle future caravelle dello spazio dovrà, pertanto, acquisire dati dalle stelle per risolvere i nuovi e complessi problemi del calcolo della posizione, dato che dovrà essere “universale”, ovvero dovrà basarsi su un sistema di riferimento svincolato dalla Terra o dal nostro sistema solare. Allontanandosi da tutti questi punti ben conosciuti e “sicuri”, infatti, il calcolo della posizione vedrà aggiungere altre difficoltà alle valutazioni complessive. Primo fra tutti l’impossibilità di ricevere i segnali dei sistemi di posizionamento terrestre. Il caro buon GPS, quindi, non potrà aiutare i futuri “capitani Kirk” nell’identificazione della propria posizione nello spazio profondo. Ecco, quindi, la necessità di trovare dei sistemi di navigazione alternativi, che possano assolvere all’incarico di individuare l’esatta posizione dei veicoli spaziali. Proprio come i marinai di una volta, che usavano la Stella Polare come riferimento per attraversare l'oceano, i futuri astronauti potrebbero fare affidamento sulle pulsar per il posizionamento, la navigazione e il timing (PNT) nello spazio profondo. Le pulsar sono stelle di neutroni che, grazie alla combinazione tra la propria rotazione e il campo magnetico, sono capaci di emettere lampi di luce e intensi segnali radio pulsanti e altre radiazioni con cadenze estremamente precise. Sono, a grandi linee, come dei radiofari piazzati nell’universo. Quello che oggi avviene con i ricevitori GPS, che utilizzano i segnali inviati dai satelliti della specifica rete di posizionamento, per determinare la loro distanza da detti satelliti e calcolare la loro latitudine, longitudine e altitudine, avverrebbe con i ricevitori a bordo dei veicoli spaziali, che rileverebbero, misurerebbero e utilizzerebbero gli impulsi regolari ed estremamente precisi emessi dalle pulsar ogni pochi millisecondi per calcolare la loro posizione nello spazio. Gli astrofisici ci dicono che le pulsar oggi conosciute sono migliaia, ma sembra che solo sei o sette siano in grado di fornire segnali abbastanza regolari e abbastanza forti per essere utilizzati per le misurazioni nel breve periodo di tempo, come richiesto per le funzioni PNT di precisione. Tuttavia, già anche un numero così esiguo potrebbe in futuro consentire una navigazione affidabile attraverso il cosmo. Al momento, gli strumenti per rilevare le emissioni delle pulsar si basano sui raggi X, che non penetrano nell'atmosfera terrestre, rendendoli utili solo nello spazio. Tuttavia, non si esclude la possibilità che un giorno quei segnali a raggi X possano essere convertiti e trasmessi alle piattaforme terrestri, permettendo così di impiegarli per la navigazione ovunque, anche sulla Terra (come backup o per migliorare la precisione del PNT basato su GPS) o nelle navigazioni attorno alla Luna, per esempio. Dal 2017, sulla Stazione Spaziale Internazionale (SSI) si sta utilizzando un telescopio sperimentale a raggi X, chiamato Neutron Star Interior Composition Explorer (NICER), che ha le dimensioni di una lavatrice e viene impiegato per meglio conoscere le proprietà delle stelle di neutroni. Gli equipaggi che si sono via via succeduti sulla SSI hanno accoppiato NICER con il software di volo nell'ambito di una missione chiamata Station Explorer for X-ray Timing and Navigation Technology (SEXTANT), che utilizza le osservazioni delle pulsar a raggi X per determinare l’esatta posizione orbitale della stazione spaziale. Il team di SEXTANT ha completato con successo una prima demo nel novembre 2018. L’Agenzia Spaziale Europea sta, inoltre, valutando la temporizzazione basata su pulsar per migliorare la precisione dei dati forniti dalla rete di satelliti Galileo PNT.
Conclusioni.
Il viaggio verso l’ignoto è una delle fantasie che solletica le menti di molti che, fin da bambini, sognano di emulare le gesta di Colombo, di Magellano … o di Armstrong. Avendo ormai esplorato tutta la superficie terrestre, l’addentrarsi verso l’ignoto, nella profondità dell’universo che ci circonda, rimane la fantasia più diffusa. Questo ci porta ad alzare lo sguardo e a sognare di spostare sempre più lontano i confini della conoscenza. Sulle mappe degli antichi romani era riportata una scritta che indicava le aree del pianeta non ancora esplorate, troppo pericolose e sconosciute: hic sunt leones, da qui in poi ci sono le belve. Era l’indicazione che si erano raggiunti i confini del mondo conosciuto. Sono passati secoli ma l’umanità continua ad avere il desiderio di navigare verso l’orizzonte, di superarlo, di esplorare l’ignoto. L’orizzonte della conoscenza, d’altronde, è come l’orizzonte marino, si sposta continuamente in avanti. Ecco, il nostro desiderio continua a essere quello di esplorare, portando quel hic sunt leones idealmente sempre più lontano, oltre la Luna, oltre Marte, oltre i confini del sistema solare, nello spazio interstellare. Cambiano i tempi, i mezzi, le persone, ma le spinte per l’esplorazione dell’ignoto sono le stesse e i sistemi di navigazione, ancorché sempre più perfezionati e precisi, si basano su principi abbastanza comuni. Parafrasando una citazione attribuita a Lucio Anneo Seneca, al “…Non esiste rotta favorevole per il marinaio che non sa dove andare…”, aggiungerei doverosamente …e, soprattutto, non sa dove si trova… Gli astronauti, infatti, che siano in navigazione per motivi scientifici, commerciali o militari, hanno bisogno di sapere esattamente dove si trovano, al fine di poter navigare correttamente verso la loro destinazione. Non sappiamo quanto tempo dovrà ancora trascorrere per l’effettuazione della prima esplorazione spaziale oltre il sistema solare. Al momento manca la tecnologia necessaria per una propulsione efficiente che permetta di percorrere quelle grandi distanze. In attesa di propulsori adeguati, il lavoro degli scienziati prosegue, con l’obiettivo di aumentare il numero delle pulsar da impiegare come orologi galattici. Analizzando approfonditamente i loro segnali potranno essere selezionate le pulsar che, su lunghe scale temporali, assicurino la stessa stabilità degli orologi atomici da laboratorio e che non si spostino in modo misurabile, con gli strumenti in nostro possesso. Ciò permetterà ai futuri navigatori dell’ignoto di conoscere esattamente la loro posizione. Se fino a oggi i viaggi spaziali e le esplorazioni galattiche con sonde artificiali hanno portato gli esseri umani a conoscenza di ciò che fino a un secolo fa risiedeva solo negli studi e nelle osservazioni effettuate dalla Terra o addirittura nell’immaginario della gente, con molta probabilità i futuri viaggi nello spazio, in aggiunta agli scopi scientifici, avranno significative motivazioni economiche (ricerca o estrazione di materie prime e risorse energetiche), militari o anche (perché no?) turistiche. Senza tener conto che con ogni probabilità, in tempi che probabilmente non interesseranno neanche i nostri pronipoti, sarà forse necessario prevedere una permanenza in pianta stabile lontano dal nostro pianeta. Per sapere dove andare sarà, pertanto, fondamentale avere una approfondita conoscenza dell’universo ma, soprattutto, essere in possesso di sistemi che ci permettano di conoscere esattamente la nostra posizione nello spazio, un piccolo ma determinante dettaglio, che aiuterà i futuri cosmonauti a navigare verso l’ignoto, portando l’umanità verso nuovi orizzonti.
Fonte: https://www.difesaonline.it