È lunedì anche allora, come domani, il 22 ottobre del 1962. Sono le sette di sera, quando all’improvviso il placido intrattenimento televisivo di un’America ancora in bianco e nero viene interrotto da un messaggio a reti unificate. Il presidente Kennedy appare seduto alla sua scrivania.
Il viso teso, lo sguardo gelido. «Buonasera, concittadini. Questo governo, come promesso, ha mantenuto sotto stretta osservazione le installazioni militari sovietiche sull’isola di Cuba. Durante la settimana scorsa prove inequivocabili hanno reso chiaro il fatto che una serie di siti missilistici offensivi è ora in allestimento su quell’isola prigioniera. Il fine di queste basi non può essere altro che quello di rendere possibile un attacco nucleare contro l’Emisfero Occidentale». “Mantenuto sotto stretta osservazione” un accidenti. In realtà la Casa Bianca si era accorta in ritardo dell’accaduto a causa di un improvvido auto-oscuramento di quarantacinque giorni. All’epoca non c’erano i satelliti: lo spionaggio dall’alto si faceva sorvolando il territorio nemico con aerei ultraleggeri, i famigerati U2, dai quali si scattavano fotografie a raffica. Nel 1960 i sovietici ne avevano abbattuto uno mentre sorvolava la Siberia, e ne era nato un imbarazzante incidente diplomatico.
Da allora “U2” era diventata una parola scabrosa. Su Cuba volavano spesso nel 1962, perché la Cia aveva captato strani movimenti sull’isola. Decollavano da Orlando, in Florida, dove non torreggiava ancora il castello di Walt Disney World. Il 29 agosto nelle foto di uno di quei sorvoli un analista della Cia aveva riconosciuto la rampa di lancio di un Sam, un missile terra-aria sovietico: la stessa arma contraerea che aveva abbattuto l’U2 sopra la Siberia due anni prima. Ma di lì a due mesi si sarebbero tenute le elezioni di mezzo termine, e in campagna elettorale Kennedy non voleva tensioni internazionali: non appena letto il rapporto, aveva ordinato di insabbiarlo («lo metta in una scatola e inchiodi il coperchio»). Poi, il 9 settembre un U2 decollato da Taiwan era “andato perso” in Cina, e per il presidente era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: aveva ordinato di sospendere tutti i voli su Cuba. John McCone, il nuovo direttore che JFK aveva messo a capo della Cia dopo il disastro della Baia dei Porci, aveva fatto il diavolo a quattro per ottenere il ripristino dei sorvoli: gli informatori all’Avana riferivano di sempre più intensi movimenti sull’isola, era chiaro che non ci si poteva permettere proprio allora quello che gli storici avrebbero ricordato come il “photo gap”. Il caso volle che proprio in quei giorni cruciali, mentre le corazzate sovietiche solcavano l’Atlantico portando verso i Caraibi le testate nucleari, McCone – il quale, vedovo sessantenne, si era appena risposato – lo avesse attraversato in direzione opposta per recarsi in viaggio di nozze a Cap Ferrat, in Costa Azzurra.
Da là aveva continuato a spedire e farsi spedire dispacci sulla questione (pare che un funzionario che a Langley curava quella corrispondenza avesse a un certo punto sbottato: «Comincio a dubitare che il vecchio sappia cosa deve fare durante la luna di miele»). Ma con i mezzi di comunicazione del tempo la distanza pesava: solo al suo rientro, e dopo dieci giorni di discussioni, McCone aveva infine strappato a Kennedy l’autorizzazione ad un nuovo sorvolo. L’U2 era decollato da Orlando domenica 14 ottobre. Aveva sorvolato la parte occidentale di Cuba, ed aveva scattato un centinaio di foto – neanche a farlo apposta, proprio mentre il Consigliere Nazionale per la sicurezza McGeorge Bundy, intervistato nel programma della Abc “Issues and Answers”, spiegava agli elettori che qualsiasi ipotesi che i sovietici avessero installato nell’isola caraibica «una significativa capacità offensiva». Per tutta la giornata di lunedì 15 ottobre quelle foto erano state esaminate febbrilmente nel Centro di Interpretazione Fotografica della Cia, che si trovava a Washington DC nascosto sopra una concessionaria d’auto. Alla fine erano giunti alla conclusione che quelle che l’U2 aveva fotografato erano proprio rampe per il lancio di missili terra-terra, in grado di colpire con testate nucleari qualsiasi città della costa orientale degli Stati Uniti, ed anche la costa del Golfo del Messico e buona parte del Texas. Tredici minuti per colpire Washington. Kennedy aveva formato immediatamente un “Comitato Esecutivo” di crisi, presto soprannominato ExComm. La gran parte di quelle riunioni vennero segretamente registrate, e negli anni quelle registrazioni sono state desecretate e sbobinate: oggi possiamo essere una mosca sul muro e conoscere parola per parola quelle discussioni. All’inizio il presidente non si capacitava: «Perchè Krusciov li ha messi proprio lì? Che vantaggio ne trae? È come se, all’improvviso, noi cominciassimo a mettere un numero significativo di missili atomici in Turchia: sarebbe dannatamente pericoloso, immagino». «Beh, noi lo abbiamo fatto, signor presidente» gli risponde Bundy dopo un momento di imbarazzato silenzio. Kennedy non se ne ricordava nemmeno, ma per Krusciov quei missili erano un tormento. A volte mentre si trovava sul Mar Nero con qualche ospite puntava il binocolo all’orizzonte e ringhiava: «Sai cosa vedo? Vedo missili americani in Turchia, puntati sulla mia dacia».
Sul piano militare Mosca non aveva speranze di pareggiare il conto: le testate nucleari americane erano cinquemila, quelle sovietiche trecento – un rapporto di uno a diciassette. L’installazione a Cuba avrebbe avuto un significato più che altro psicologico e politico. Ma ciò che davvero aveva spinto Krusciov a ad avventurarsi nei Caraibi era stata la volontà di salvare la rivoluzione cubana. Dopo la Baia dei Porci, i Kennedy non avevano abbandonato l’idea di invadere Cuba: l’avevano solo rinviata a data da destinarsi. E nel frattempo avevano deciso di perseguire con altri mezzi lo stesso fine. Nel novembre del 1961 Bobby aveva messo in piedi, sotto la propria personale supervisione, la cosiddetta Operazione Mongoose (“mangusta”), una serie di “azioni coperte” da condurre sull’isola per far scoppiare una rivolta o assassinare il tiranno. Nel gennaio del 1962, in un discorso al team della missione, aveva definito la deposizione di Castro «la priorità assoluta del governo americano; tutto il resto è secondario, non ha da esservi risparmio né di tempo, né di denaro, né di impegno, né di risorse umane». Quando Fidel e Che Guevara lo avevano scoperto erano andati a Mosca a chiedere protezione, e l’avevano prontamente ottenuta. Cuba era l’unico paese al mondo ad aver adottato un regime comunista spontaneamente, senza coercizione: «Se fosse caduta», avrebbe spiegato Krusciov nelle sue memorie, «gli altri paesi latino-americani ci avrebbero respinti». E così, Kennedy si era ritrovato i missili sovietici nel giardino di casa. Fin dalle prime riunioni l’ExComm si era diviso tra i falchi che volevano un bombardamento a sorpresa e le colombe che preferivano limitarsi ad un blocco navale, temendo che un’escalation militare sarebbe presto degenerata nell’Armageddon. Le bombe atomiche di allora non erano più a fissione come quelle sganciate nel 1945 sul Giappone: negli anni Cinquanta si era passati a quelle a fusione, mille volte più potenti.
Dieci giorni fa i National Archives hanno ottenuto dagli eredi di Bobby Kennedy l’autorizzazione a pubblicare sette scatoloni di documenti personali dell’allora Ministro della Giustizia (che però partecipava a quelle riunioni più che altro come alter ego del fratello presidente) fino ad oggi rimasti segreti. Un appunto manoscritto da Bobby durante la seconda riunione testimonia una votazione per contare quanti erano per l’embargo e quanti per il bombardamento. Tra i primi ci sono i nomi di McNamara e il Segretario di Stato Dean Rusk; tra i secondi quelli di Bundy e di McCone, e di tutti i presenti in uniforme. Undici voti per l’embargo, sette per l’attacco. I fratelli Kennedy non sono inclusi nella votazione, ma sappiamo dalle registrazioni audio che Bobby era inizialmente tra i falchi. Poi però si era reso conto che questo avrebbe significato un bombardamento a sorpresa. Il secondo giorno aveva passato a suo fratello un biglietto: «Ora so come si sentiva Tojio mentre pianificava Pearl Harbor». L’indomani Bobby aveva messo sul tavolo il suo scrupolo morale: «Per centosettantacinque anni, non siamo stati quel genere di paese». Ma era rimasto a favore dell’intervento militare, purché non a sorpresa. Il blocco navale, diceva, richiede troppo tempo per strangolare il nemico – mesi, probabilmente. Se Mosca voleva la guerra, allora tanto valeva trovare un pretesto per sferrare il primo colpo e invadere Cuba. «Affondare un’altra volta il Maine», disse con sinistro riferimento alla corazzata che gli Stati Uniti avevano inviato all’Avana nel 1898, ai tempi della insurrezione anti-spagnola: fu fatta esplodere, gli americani diedero la colpa agli spagnoli e quello fu per gli Stati Uniti il casus belli per entrare in guerra contro la Spagna e liberare l’isola. Si poteva inscenare un remake? Nel dubbio, quaranta navi da guerra furono inviate a Porto Rico per prepararsi all’invasione (Operazione “ortsac”, “castro” al contrario). Tutto questo era accaduto all’insaputa del popolo americano – di quasi tutta la popolazione mondiale in effetti, fuorché poche decine di persone. Finché, dopo una settimana di tormentate discussioni, domenica 21 ottobre Kennedy aveva deciso: intrappolato tra l’alternativa dell’Armageddon e quella della resa, avrebbe tentato di divincolarsi aprendo una trattativa.
La marina militare americana sarebbe stata schierata a bloccare la strada alle otto navi russe in viaggio attraverso l’Atlantico cariche di altre testate; nel frattempo Mosca avrebbe ricevuto l’intimazione di ritirare i missili già schierati, pena il bombardamento dell’isola. È questo il piano che JFK spiega agli americani e a tutto l’Occidente – ma anche al Cremlino – nel suo discorso a reti unificate di quel lunedì 22 ottobre. Gioca d’anticipo: non vuole lasciare ai sovietici il vantaggio di annunciare la presenza di quei missili spacciando la tesi di una loro funzione difensiva. «Nessuno è in grado di prevedere esattamente il corso degli eventi o quali saranno i costi o le perdite... Ma il pericolo più grande di tutti sarebbe stato non fare niente». Il guanto di sfida è lanciato: il mondo si prepara al peggio. Mercoledì con un telegramma (non esisteva ancora il “telefono rosso”) Kruscev risponde che ogni interferenza contro le navi sovietiche in rotta verso Cuba verrà considerata come un “atto di pirateria” e una dichiarazione di guerra. «Quella sera andammo a casa con in tasca i tesserini per accedere ai rifugi segreti antiatomici, convinti che quella sarebbe stata l’ultima notte del mondo come lo avevamo conosciuto» avrebbe raccontato molti anni dopo Pierre Salinger, il portavoce di JFK. «Aspettammo che accadesse qualcosa», avrebbe scritto a crisi finita il direttore del New Yorker, «misurandoci un minuto dopo l’altro con la nostra dolorosa ignoranza di ciò che il minuto successivo avrebbe portato con sé, e sentendo su di noi il peso morto della convinzione che nessuno sulla Terra – non il presidente, non i russi – potesse saperlo». Decenni più tardi l’apertura degli archivi sovietici avrebbe rivelato che Kruscev e i suoi erano altrettanto inorriditi dall’idea di andare fino in fondo: bluffavano. Gli unici che davvero bramavano “la bella morte” per la causa socialista, a costo di trascinare al macello la popolazione di mezzo emisfero, erano Castro e Guevara. Nel momento di massima tensione Krusciov ricevette un telegramma di Fidel che diceva: «Dovremmo lanciare per primi un attacco nucleare». Bel paradosso: il Cremlino aveva mandato i missili per proteggere Cuba; Castro invece smaniava di immolarla.
Quando Krusciov lo capì, diede ordine di ritirarsi «prima che sia troppo tardi, prima che accada qualcosa di terribile». Le navi sovietiche fecero dietro front a poche miglia dalla linea di blocco; dopodiché, sabato 27 ottobre, la riunione mattutina alla Casa Bianca venne interrotta da un lancio della Associate Press: «Mosca - il Premier Kruscev ha annunciato al presidente Kennedy che ritirerà le armi offensive da Cuba se gli Stati Uniti ritireranno i loro missili dalla Turchia». Ufficialmente non fu quello l’accordo: l’Unione Sovietica, si disse, ritirò i missili accontentandosi della promessa da parte degli Usa di non tentare mai più di invadere Cuba. Ma vent’anni dopo fu rivelato che in realtà era stato concesso a Kruscev anche il ritiro dalla Turchia degli Jupiter della Nato “puntati sulla sua dacia”, solo che questa seconda contropartita era passata solo il tavolo: si poteva fare, solo a patto che rimanesse un segreto – e lo rimase, finché non furono gli americani a svelarlo. Fidel seppe dell’accordo a cose fatte, e per la rabbia ruppe uno specchio con un pugno, ferendosi. Di fatto, Castro fu l’unico protagonista di quella crisi a viverne l’esito come una disfatta. Eppure è grazie a quell’accordo se a distanza di mezzo secolo lui è ancora lì; John Kennedy, invece, sarebbe vissuto ancora solo un anno e un mese. Era solo una pedina di scambio.
Fonte: http://www.opinione.it