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Pechino - Immagina di essere una ventina d'anni fa e di parlare di economia. Se ti avessero mai detto che un giorno gli Stati Uniti avrebbero messo dei dazi sull'importazione di particolari prodotti cinesi, imponendo di fatto una sorta di protezionismo per difendere i propri prodotti (e posti di lavoro), forse non ci avresti creduto. Avresti addirittura definito un po' fuori dal mondo un eventuale interlocutore che, dopo la premessa, ti avesse anche detto che in difesa della libertà di mercato si sarebbe esposta niente meno che la Cina. Eppure oggi è quello che – apparentemente – sta succedendo. Ma dietro la guerra del solare, si nascondono interessi che tirano in ballo accordi internazionali e il futuro di un settore importante come quello delle energie alternative.

Succede infatti che Cina e Stati Uniti stiano combattendo molte battaglie , in modo totalmente nuovo e lungo traiettorie per lo più commerciali, economiche, laddove non siano ancorate ad una sorta di risiko diplomatico del nuovo mondo globalizzato, vedi le questioni legate al mar cinese meridionale e i suoi equilibri militari. Una di queste contemporanee guerre commerciali si svolge lungo l'asse della produzione di pannelli solari.

La premessa può farsi risalire al settembre 2011 quando a fallire in modo rumoroso è Solyndra, quella che per Obama doveva diventare il fiore all'occhiello dell'impegno ambientalista, la Apple dei pannelli solari. Un fallimento che nel triste statement che ne racconta la fine, ha un capro espiatorio molto chiaro: la Cina. Nel documento si dice infatti a chiare lettere che una delle cause della caduta dell'azienda è da far risalire alla sgradita competizione cinese. Ovvero aziende che inondano il mercato di prodotti costruiti a basso prezzo, ma più di tutto finanziati dai famosi sussidi statali cinesi. Dumping, in pratica. Accuse che la Cina rimanda subito al mittente, sottolineando come anche Solyndra avesse goduto di non pochi incentivi governativi da parte degli Usa, ma ormai la guerra era cominciata. Infatti: lo scorso 17 maggio il Dipartimento di Stato americano decide di imporre dazi alle importazioni di pannelli solari che vengono prodotti nell'ex Celeste Impero.

I primi annunci sono traumatici per i cinesi: gli Stati Uniti annunciano infatti che imporranno tariffe di circa il 31% su sessanta esportatori cinesi di pannelli solari accusati di dumping, tra cui Wuxi Suntech e Trina Solar. Per altri produttori le tariffe sono esorbitanti: 250%. Infine arriva l'ufficializzazione, di qualche giorno fa, quando il Dipartimento del Commercio ha emesso la sua sentenza definitiva, imponendo tariffe che vanno da circa 24 a quasi il 36% sulla maggior parte dei pannelli solari importati dagli Stati Uniti.

Il Ministero del Commercio cinese ha immediatamente condannato la decisione, definendolo un “segnale di protezionismo” e di “ostacolo allo sviluppo di nuova energia”. Shen Danyang, portavoce del Ministero, ha detto che il Dipartimento del Commercio statunitense ha ignorato gli sforzi del governo cinese e delle imprese: “la decisione degli Stati Uniti è in contrasto con gli sforzi globali per combattere le sfide del cambiamento climatico e della sicurezza energetica e rompe la promessa del paese di non adottare misure protezionismo, che è stato specificato in occasione dell'ultimo G20”.

Fino a qua, botta e risposta, come di consueto. Ma cosa si nasconde dietro questa guerra del solare? Abbiamo provato a chiederlo ad un insider, un professionista che si occupa del tema da parecchio tempo, in Cina. Esiste da sempre una questione di fondo che risale agli accordi di Kyoto, in base al quale, nell'ambito delle riduzioni di CO 2, non c'è un impegno circa i sussidi solo americano e cinese, ma anche europeo: “In pratica si è creata una situazione di vantaggio sia per le aziende occidentali che potevano andare a produrre a basso costo in Cina, sia per i cinesi che hanno potuto usufruire di una spinta tale da renderli leader al mondo. Le aziende Usa sono rimaste con il cerino in mano”. Non tutte, naturalmente: la richiesta di dazi nasce infatti dalla spinta di un consorzio di produttori americani che ha mantenuto la produzione negli States.

Il protocollo di Kyoto, infatti, cosa prevedeva tra le altre cose? La possibilità che i Paesi che avevano preso impegni di riduzione di emissione potessero raggiungere tale obiettivo anche attraverso la sponsorizzazione di progetti all'estero, specie nei paesi in via di sviluppo come è considerata ancora oggi la Cina. “Ovvero quei paesi che hanno ratificato il protocollo di Kyoto, ma che non hanno ancora impegni di riduzione”. Quindi si tratta di un impegno che impatta principalmente l'Europa e le sue aziende, ma che viene attuata su Paesi ancora in via di sviluppo. Sostiene il nostro esperto: “Questo soddisfa una logica di win win, da un lato, a causa del mix di produzione energetico fortemente a base di carbone come avviene in Cina, ma d'altro canto è anche economicamente conveniente per per ridurre le emissioni in Cina”.

E naturalmente è un aspetto molto vincente per la Cina, perché “attraverso i progetti portati avanti da parte dei Paesi europei in Cina, si rende possibile lo sviluppo di fonti rinnovabili in Cina, che porta a vantaggi economici soprattutto per chi investe in quel settore in Cina”. Ovvero lo Stato cinese.

La guerra lanciata dagli Usa, quindi – e non solo per i cinesi -  finirà per alzare i prezzi di produzione del solare, favorendo la consueta lobby: quella di chi produce energia fossile. Alla faccia degli investimenti e dei sogni di energie alternative.

Fonte: http://gadget.wired.it

 


 

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