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Da circa vent’anni l’Asia non è solo il più munito campo trincerato del globo ma, se si esclude la sempre importante flotta russa, è stata la nursery che ha visto crescere esponenzialmente altre flotte, in particolare di Giappone, India e Cina. Ed è proprio per l’assertività dimostrata e per il volume (e qualità) di naviglio messo in mare, che molti osservatori si soffermano sempre più spesso su quest’ultimo grande Paese, che non vuole più rimanere rinchiuso all’interno dei suoi confini geografici, ma che vuole diventare potenza (marittima) globale. Dopo aver spostato il baricentro economico mondiale, infatti, la Cina sta ora modificando il rapporto di forze nella regione Indo-Pacifico. La classe dirigente cinese, guidata da Xi Jinping, si sta quindi impegnando a fondo per il raggiungimento di questo traguardo, che permetterebbe a Pechino di rivaleggiare con la Marina più potente del mondo, quella degli Stati Uniti, e di realizzare le proprie aspirazioni in merito alle questioni marittime dell’area e, in prospettiva futura, del mondo. Appare, pertanto, utile effettuare alcune riflessioni in merito alla flotta cinese e ai relativi programmi navali, in modo da comprendere quanto siano reali le possibilità che ha Pechino di sfidare la potenza navale americana.



La flotta cinese.
Il miglioramento dei rapporti con la Russia favorito dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e, quindi, dal venir meno della gara per il primato nel mondo comunista, che la Cina non intendeva riconoscere al PCUS, ha permesso a Pechino di accedere alla tecnologia necessaria per iniziare lo sviluppo di una flotta moderna e competitiva. Il 2 dicembre 2002 il presidente russo Vladimir Putin si è recato in visita dal presidente Jiang Zemin e al segretario generale del partito comunista cinese, Hu Jintao e, nell’occasione, è stato ufficializzato l’accordo circa l’acquisto di armamento navale russo da parte di Pechino. Un accordo teso a soddisfare il desiderio cinese di acquisire sommergibili nucleari e navi di superficie più moderne, oltre che ad assicurare consistenti trasferimenti di tecnologia verso la Zhōngguó Rénmín Jiěfàngjūn Hǎijūn, letteralmente Marina dell'Esercito Popolare di Liberazione Cinese, allo scopo di creare un settore navale dagli alti contenuti tecnologici. Si trattava, tuttavia, solo dell’ultimo tassello in ordine di tempo di un’ormai consolidata cooperazione generale nel settore degli armamenti, che aveva già permesso a Mosca di sostenere economicamente la propria industria bellica durante la crisi economica degli anni novanta. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), infatti, nel periodo 1990-2001 la Cina ha speso circa 10,78 miliardi di euro in materiale di armamento e più del 90% di questa cifra sarebbe arrivata in Russia. In particolare, tra le armi avanzate acquistate da Pechino ci sarebbero gli aerei da guerra russi Sukhoi Su-27 e Su-30, due cacciatorpediniere classe “Sovremenny” da 6.200 t (armate con missili antinave supersonici), che avevano rappresentato l’ossatura della Voenno-morskoj flot e quattro sottomarini convenzionali classe “Kilo”. Da 2003 in poi Pechino, grazie a importanti investimenti e al trasferimento di tecnologia, pur continuando a importare armamenti dall’estero per cifre considerevoli, ha cominciato a progettare e costruire navi per conto proprio. Una spinta industriale di enormi proporzioni che ha portato la Cina a diventare anche paese esportatore di tecnologia navale. Per dare un’idea dell’impegno cinese basti pensare che nel 2018, durante un’audizione parlamentare, l’allora capo di stato maggiore della Marine Nationale ammiraglio Christophe Prazuk, ha affermato che Pechino, nel corso dei precedenti quattro anni, aveva costruito navi militari per l’equivalente di tutta la flotta francese. Crescita enorme confermata da uno degli ultimi rapporti del Pentagono sulle capacità militari marittime cinesi 1) , dal quale risulta che la Marina è diventata la Forza Armata più importante della Cina e che numericamente è ormai la prima forza navale del mondo, avendo in servizio circa 350 unità contro le “sole” 293 della U.S. Navy. Tuttavia, se consideriamo il tonnellaggio complessivo, gli Stati Uniti staccano di gran lunga la Cina, principalmente grazie alle undici portaerei da 100.000 t ciascuna. Ciò nonostante, il Pentagono sottolinea come possa essere solo una questione di tempo per giungere a un equilibrio anche sotto questo aspetto. Non accontentandosi dei risultati raggiunti, questo ritmo forsennato nelle costruzioni navali è proseguito, varando nel 2019 la nuova nave d’assalto anfibio di Tipo 075D (foto precedente) da 40.000 t (simile alla statunitense Wasp) mentre una seconda é nelle fasi finali di costruzione ed è ultimamente iniziata la costruzione di una terza unità. Nel frattempo prosegue a tamburo battente anche il programma di costruzione degli incrociatori Tipo 055 da 12.000 t circa per circa 180 m di lunghezza, il cui potentissimo e differenziato armamento consente non solo di assicurare un efficace ruolo di protezione di una grande unità (portaerei o unità anfibia), ma anche di essere un efficiente centro di comando in operazioni di gruppi di impiego di minor consistenza, risultando un formidabile elemento di potenza e deterrenza. Queste unità sono dotate, tra le altre, di capacità anti-sommergibile e di lancio di circa 130 missili antiaerei e antinave. La prima di queste, il Nanchang, è entrata in servizio lo scorso gennaio 2020 mentre altri tre incrociatori, la cui costruzione è iniziata in aprile (una unità) e luglio (due unità) 2018, stanno effettuando le prove in mare. Ulteriori quattro unità di questo tipo sono in vari stadi di preparazione. Altre cinque navi di vario tonnellaggio e capacità dovrebbero entrare in servizio a breve e, secondo il Pentagono, potrebbero essere dotate di missili antinave ma delle quali a oggi si ignorano le effettive prestazioni. Una certa importanza rivestono le unità subacquee, che comprendono sia sottomarini dotati di armamento nucleare e in grado di restare in agguato per lunghi periodi sia sommergibili convenzionali. Un insieme offensivo e difensivo ritenuto di discreta valenza. In merito allo sviluppo di capacità navali, quindi, la Cina da tempo non sta lasciando nulla al caso e, dopo essere diventata un gigante economico, si sta proponendo come un gigante anche sui mari e sugli oceani del mondo, avendo ormai completato la transizione da Marina costiera a blue water fleet. In tale ambito, assumono particolare valore le portaerei, navi che permettono un’effettiva proiezione di potenza. La prima unità entrata in servizio è stata il CNS Liaoning (foto apertura), di circa 60.000 t per 305 m di lunghezza. Si tratta di un’unità ex-sovietica (la Varyag, classe “Admiral Kutznetsov”), acquisita nel 1998, rinnovata e rimessa in servizio nel 2011. La seconda unità è il CNS Shandong (foto in alto), di 305 m di lunghezza, prima unità di questo tipo costruita completamente dai cinesi. Con le sue 65.000t può portare una quarantina di velivoli ed è dotata di uno sky-jump e cavi d’arresto per le operazioni aeree (STOBAR)2. Dopo dieci mesi di prove in mare, lo scorso 29 ottobre ha completato i test e l’addestramento basico ed è ora pronta per l’impiego operativo. Tuttavia, dato che queste prime due unità non offrivano le stesse capacità delle portaerei della U.S. Navy, nel 2015-2016 è iniziata la costruzione di una terza portaerei cinese da 80.000 t con catapulta e cavi d’arresto (CATOBAR), sembra a propulsione nucleare. Dotata di catapulte elettromagnetiche, come quelle che la U.S. Navy sta montando sulle nuove portaerei classe ”Gerald Ford”, avrà la possibilità di far decollare più aerei da combattimento in breve tempo, aumentandone la capacità operativa. In merito, è in preparazione il nuovo caccia multiruolo denominato Shenyang J-15T, derivato dal russo Su-33 Flanker-D. Diversamente dalle precedenti versioni imbarcate, quest’ultimo velivolo presenta importanti modifiche, necessarie per operare da portaerei dotate di catapulta. La catapulta magnetica può anche lanciare aerei ad ala fissa più pesanti, come gli early warning, in grado di raccogliere informazioni sull’area di interesse e agire come centro di comando aereo. La nuova portaerei dovrebbe avere una lunghezza di 320 m e dovrebbe imbarcare anche i nuovi bimotori turboelica early warning KJ-600. Il primo di questi velivoli ha effettuato il volo inaugurale lo scorso agosto. Come detto, la costruzione di tutte le nuove unità sta procedendo molto rapidamente. In particolare, la nuova portaerei potrebbe essere varata intorno alla fine del 2020-inizio del 2021 in quanto i cinesi hanno preferito costruire i vari settori in diversi cantieri, inviando poi il tutto al cantiere di Jangnan per l’assemblaggio finale. Ciò ha permesso di ridurre sensibilmente i tempi di realizzazione. La data di entrata in servizio operativo di questa nuova unità dipenderà dall’esito delle prove che verranno effettuate in mare una volta che avrà finito la fase di allestimento. La Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione Cinese sta quindi diventando sempre più moderna e flessibile e, negli ultimi due anni, ha messo in linea piattaforme multiruolo moderne, dotate di capacità antinave, antiaeree e antisommergibile avanzate. Ma ciò che preoccupa maggiormente in prospettiva futura è la politica marittima cinese, che si è fatta più assertiva nelle sue dispute territoriali con i vicini (India, Taiwan, Mar Cinese meridionale, Giappone, ecc…), supportata da una Marina da potenza marittima, con un atteggiamento aggressivo, un crescente numero di unità navali, tonnellaggio e capacità complessive, oltre che numero e dislocazione delle basi. In sostanza, la postura della flotta cinese appare indirizzata alla proiezione di potenza e alla possibilità di acquisizione e controllo delle aree marittime di interesse strategico (vedi articolo), come dimostrano le recenti esercitazioni navali cinesi, caratterizzate da attività di assalto anfibio, svoltesi dal 1 al 5 luglio scorsi nelle acque comprese tra l’isola di Hainan e l’arcipelago delle isole Paracelso (sottratto al Vietnam nel 1974 e ancora oggetto di contenzioso). Un chiaro segnale che fa comprendere come Pechino non abbia alcuna intenzione di ammorbidire il suo approccio in quelle acque. La flotta appare quindi proiettata verso un assetto in grado di rispondere pienamente alla nuova politica marittima cinese, con la possibilità di effettuare missioni di “presenza navale” anche in aree non consuete per Pechino, quali quelle sudamericane, quelle africane o in Mediterraneo, con una crescente capacità di esercitare una pressione marittima in linea con gli obiettivi di politica estera del Celeste Impero.



Conclusioni.
Il XXI secolo è destinato a vedere la Cina, potenza nucleare, membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e Paese con l’economia attualmente più forte in assoluto, tra i maggiori attori della vita internazionale, anche attraverso una sua maggiore presenza sui mari e gli oceani del mondo. Un consulente di alto livello della China Arms Control and Disarmament Assotiation non ha nascosto le ormai più che evidenti ambizioni marittime cinesi, dichiarando che “…in futuro verranno costruite basi logistiche oltremare per consentire alla Marina militare della Repubblica Popolare Cinese di condurre operazioni su scala globale…” 3) . Un cambio di postura rispetto al passato che indica la decisa volontà di diventare potenza globale, anche nel settore militare marittimo, recuperando iniziativa autonoma e contribuendo a decidere gli eventi mondiali, lasciando definitivamente ad altri il limitato ruolo di potenza regionale, contraddistinto da una politica estera e militare di tipo reattivo, influenzata dagli eventi globali. L’obiettivo è, quindi, raggiungere capacità analoghe a quelle della Marina statunitense, in modo da rivaleggiare nella governance mondiale. È chiaro che con il prepotente sviluppo economico registrato negli ultimi anni dalla Cina essa sente di poter gradualmente prevalere con il suo modello, in contrasto con il “pivot to Asia” attuato dagli Stati Uniti, certamente ancora significativi per la schiacciante superiorità sul piano aeronavale. In tale contesto, è presumibile che le relazioni tra Cina e Stati Uniti rimarranno abbastanza tese e problematiche e non appare ipotizzabile che la nuova amministrazione Biden decida di ammorbidire la propria postura riguardo i principali temi sul tavolo, a partire da quelle che Pechino reputa indebite manifestazioni di appoggio all’affermazione internazionale di Taiwan quale entità indipendente e, a maggior ragione, alle forniture militari che esso riceve da Washington. Le rispettive flotte, quindi, continueranno a fronteggiarsi, da una parte per affermare la sovranità cinese su alcune zone di mare contese (e sulle relative risorse sottomarine) e dall’altra per ribadire il concetto di libertà di navigazione su quelle stesse acque. Ad ogni modo, al momento appare improbabile l’eventualità di battaglie navali fra la Marina degli Stati Uniti e quella del Celeste Impero, sul modello di quelle che le navi americane e giapponesi hanno combattuto nel corso della Seconda Guerra Mondiale nel Mar dei Coralli o nelle acque al largo delle isole Midway. In primo luogo perché la Cina oggi non sente alcuna necessità di avventurarsi in un azzardato scontro sul mare, in quanto ha ancora almeno altrettanti immediati ed equivalenti interessi politici, economici e geostrategici rivolti verso il continente euroasiatico. In secondo luogo, perché gli ammiragli cinesi sono certamente ben consapevoli della situazione di inferiorità in cui la loro flotta verrebbe a trovarsi in un confronto aeronavale con gli americani in mare aperto. Un’inferiorità, come abbiamo visto, non dipendente dal numero delle navi o dalla tecnologia a disposizione, ma dalla tipologia dei dispositivi navali impiegabili. Senza parlare dei sottomarini, su cui non sembra esserci partita, il rapporto fra le rispettive portaerei è, infatti, ancora nettamente a sfavore dei cinesi, con la U.S. Navy che dispone peraltro di unità moderne, efficienti e operativamente efficaci, mentre l’operatività delle portaerei cinesi è tutta da dimostrare. E ciò, in un confronto diretto, giocherebbe un ruolo determinante. A questo si aggiunge il fatto che, a prescindere dal livello di addestramento e dall’aggressività del personale, i vertici della Marina cinese sono coscienti che agli equipaggi manca l’esperienza bellica, un fattore che in una battaglia in mare aperto ha sempre avuto un peso non trascurabile. A differenza degli americani, infatti, la Marina cinese non ha mai combattuto e l’unica volta che lo ha fatto, alle foci del fiume Yalu contro i giapponesi nell’estate del 1895, le navi cinesi furono tutte affondate. È, quindi, ipotizzabile che il complesso e ambizioso programma di Xi Jinping per riportare la Cina ai fasti del passato ed elevarla al rango di superpotenza mondiale prosegua nel breve e medio termine mantenendo una relativamente pacifica convivenza con gli Stati Uniti (pur con tutti i distinguo del caso), magari individuando interessi comuni che vadano oltre l’esistente rapporto conflittuale e meccanismi bilaterali di consultazione che permettano di comporre tempestivamente eventuali divergenze. Tuttavia l’esempio di Hong Kong e alcune altre iniziative unilaterali poste in essere in aree geografiche circoscritte (es.: Tibet, isole Senkaku, Spratly e Paracelso), hanno creato attorno a Pechino un clima di diffidenza e di ostilità e hanno fatto sorgere legittimi dubbi circa la postura che la Cina potrebbe assumere quando riterrà di essere così forte da non essere sfidata da nessun Paese.

di Renato Scarfi



Note.

1) https://news.usni.org

2) "Short Take-Off But Arrested Recovery", in italiano: "decollo corto e arresto assistito".

3) Peter Frankopan, "Le nuove vie della seta", Mondadori, 2019, pag. 110



Fonte: https://www.difesaonline.it






 

 

 

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