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Il momento di maggior tensione tra Cina e Giappone sembra essere giunto al termine e non è escluso anzi che i due possano adesso ritrovare una nuova momentanea tranquillità. Tuttavia, gli equilibri internazionali messi in luce dalla vicenda sono oggi più che mai in movimento. Lo scontro diplomatico tra Tokyo e Pechino simboleggia l’ascesa ed il declino dei due Paesi più potenti dell’Asia. La Cina – sebbene continui a negarlo – ha avuto la sua vittoria diplomatica, spaventando il Giappone con un bando sulle forniture industriali di metalli rari, dove essa detiene un quasi monopolio mondiale. Gli errori commessi dalla leadership nipponica hanno fatto sì che il Giappone non avesse altra via d’uscita se non quella di liberare il capitano cinese e perdere nettamente questo lungo round diplomatico contro Pechino.

 

 

Mentre i media cinesi festeggiano e si gongolano sulla indiscussa vittoria e quelli giapponesi invece criticano aspramente le decisioni del Governo Kan, la vicenda ha spostato i riflettori sul rapido accumulo di potere della Cina e sulle crescenti preoccupazioni dei suoi vicini. Dopo anni di proclami alla “crescita pacifica” ed ai rapporti di buon vicinato, Pechino sembra aver preso coraggio per una nuova intraprendenza, dimostrando di essere ancora al centro delle divisioni politiche in Asia.

Fino alla metà del 19° secolo la concezione geocentrica delle dinastie cinesi rendevano l’Impero estremamente arrogante ed a volte aggressivo nei confronti delle Nazioni vicine, considerate né più né meno che Stati vassalli. Tale rapporto di superiorità è stato vero fino alla caduta dei Qing, crollati sotto l’aggressione e la dominazione occidentale. Il successivo periodo, che va all’incirca dalla Restaurazione Meiji nel 1868 fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ha visto un esplosivo sviluppo del Giappone, che anche sfruttando le debolezze e le divisioni degli avversari, riuscì a conquistare ed invadere il “Regno di Mezzo”, ponendosi egemonicamente sulla Regione e contrastando la presenza occidentale. Ma mentre le sanguinose guerre della prima metà del 20° secolo hanno reso impensabile per l’Europa, almeno per il momento, il ritorno di una nuova ondata di violenze, i conflitti in Asia della seconda metà del 20° secolo non hanno risolto le questioni ma anzi accentuato le aspre rivalità. Nonostante la storia venga spesso portata ad argomentazione per le intenzioni pacifiche della Cina, Pechino è stato coinvolto in un sufficiente numero di conflitti per non potersi di certo definire uno Stato “tranquillo”. La Guerra di Corea (1950-1953), i conflitti con l’India (1962), l’Unione Sovietica (1969) ed il Vietnam (1979), si sono verificati tutti in un momento in cui Pechino era debole e diviso. Oggi, l’ascesa economica, politica e militare della Cina solleva quindi nei sui vicini preoccupazioni più che legittime.

Negli ultimi anni, la Cina, sembra aver instaurato una pericolosa relazione diretta tra la prosperità economica e l’aggressività ai confini. Solo quest’anno Pechino ha mostrato più volte i muscoli nella conduzione della sua politica estera: l’inclusione del Mar Cinese Meridionale tra gli interessi nazionali “irrinunciabili” (ponendo quindi implicitamente la sua sovranità sulle isole Spratlys, possibile prossimo punto di tensioni), il riferimento al Mar Giallo come zona “vitale” per la sicurezza nazionale e le conseguenti richieste agli Stati Uniti di evitare esercitazioni militari navali nelle aree sopraindicate. Le storiche rivendicazioni sulle isole Senkaku, sulle isole Ryukyu, sul Tibet, su Taiwan, sullo Xinjiang ma anche sull’Arunachal Pradesh, hanno messo in allarme l’intero continente asiatico, dal Giappone all’India.

Dato il suo rapido sviluppo, nonostante gli enormi problemi economici che sta affrontando, non esiste alcun dubbio sul fatto che la Cina diverrà una delle potenze mondiali dominanti del 21° secolo. Questo non significa necessariamente che Pechino entrerà prima o poi in conflitto con Washington. In primo luogo, date le inevitabili riforme che la leadership cinese dovrà fare al suo interno ed i periodi di transizione che seguiranno ad esse, per la Cina è improbabile, almeno nel breve periodo, alcun tipo di ruolo imperiale in politica estera. Gli Stati Uniti non saranno sostituiti come potenza dominante a meno che essi non decideranno per un ripiegamento come la Gran Bretagna nel 20° secolo. In secondo luogo, la crescita demografica e la trasformazione della società cinese, imporranno alla Cina il mantenimento di un tasso di crescita economica a doppia cifra per ancora un lungo periodo. In altre parole ciò si traduce in quella inevitabile interdipendenza tra Asia ed Occidente. In termini di politica estera la Cina cercherà di proteggere le sue trasformazioni interne, garantendo le risorse estere, specialmente energetiche, ai suoi mercati. In particolar modo, per quest’ultimo motivo, il Governo cinese si renderà conto che il ruolo dell’America come “controllore” globale è ancora indispensabile.

Questo però non deve necessariamente farci dormire sonni tranquilli. Il rapporto Washington-Pechino viaggerà lontano da binari bilaterali rettilinei. Le crisi e le tensioni si susseguiranno a periodi distensivi e di dialogo. Nonostante l’approccio fideistico che i moderni economisti ripongono sull’assunto che l’interdipendenza economica equivale ad una garanzia per la pace, la vicenda delle Senkaku e la storia stessa dimostrano che non è sempre così. Come è stato possibile che a causa di un incidente minore in un piccolo arcipelago disabitato le relazioni commerciali tra la seconda e la terza economia del Mondo sono così rapidamente peggiorate tanto da minacciare i legami economici? Il reciproco danno che sarebbe derivato da un’escalation della crisi non ha rappresentato un valido deterrente alle pretese di entrambi i contendenti. Il Giappone avrebbe potuto risolvere immediatamente la questione riconsegnando subito il capitano cinese, eppure non lo ha fatto. La Cina avrebbe invece potuto esercitare una pressione gradualmente crescente, eppure ha deciso di mettere in campo tutta la sua potenza economica per ottenere una rapida vittoria diplomatica. Alla fine il Giappone ha ceduto ma l’atteggiamento arrogante della Cina aveva messo Tokyo nella pericolosa condizione di non poter abbassare la testa. Se è vero che la globalizzazione ha creato un’interdipendenza profonda allora come si spiega la pericolosa escalation, nel totale disinteresse alle possibili ripercussioni commerciale ed economiche? Nel periodo precedente la Prima Guerra Mondiale, la globalizzazione vittoriana aveva raggiunto il suo massimo splendore ed il movimento di capitali, uomini e merci era molto simile a quello attuale. L’interdipendenza economica portò il celebre scrittore britannico Norman Angell a teorizzare nel 1909 l’impossibilità di una guerra tra partner commerciali, visione poi drammaticamente smentita dal conflitto che sarebbe scoppiato solo 5 anni più tardi. La Germania, Nazione in ascesa e la Gran Bretagna superpotenza mondiale, ebbero molte occasioni per stringere un’alleanza che avrebbe forse evitato l’Armageddon e rilanciato un potente sviluppo economico. Ironia della sorte, i maggiori rapporti di collaborazione economica tra le due Nazioni si verificarono proprio sugli appalti per le costruzioni ferroviarie in Cina. In breve, Londra forniva capitale e Berlino l’industria. Poi per quelle inevitabili diffidenze e a causa dello sviluppo di una potente flotta tedesca, considerata una “dichiarazione di guerra” dai gerarchi militari britannici, Londra e Berlino si allontanarono sempre di più dando il via a quella catena di eventi che avrebbero portato all’apocalisse della modernità del 14 – 18.

Per concludere, la storia dell’Europa tra il 1870 ed il 1914 dovrebbe portarci a non abbassare mai la guardia su quello che, come dimostra l’episodio di Senkaku, è rappresentato dall’imprevedibilità dei nazionalismi e della politica estera.

Fonte: http://politicaestera.altervista.org

 


 

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