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Appena dopo la fine della guerra fredda, Philip Karber, funzionario del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, si recò in Russia per preparare il terreno alla visita del segretario di allora, Frank Carlucci. “Ci fu un incontro con lo stato maggiore russo – ricorda Karber – Un generale d’armata ci disse che la Russia disponeva di 40 mila testate nucleari, non delle 20 mila che pensavamo noi”.

 

 

Fu una rivelazione sconcertante. In un’epoca in cui legioni di analisti della Cia, “war-gamers” (simulatori – ndt) del Pentagono e specialisti nel controllo degli armamenti consacravano la propria carriera alla produzione di stime dell’arsenale sovietico, si venne a scoprire che gli Stati Uniti si erano sbagliati di uno scarto pari al cento per cento.

Philip Karber, che vanta incarichi nelle passate amministrazioni sia repubblicane che democratiche, attualmente a capo dell’Asian Arms Control Project (Progetto di controllo degli armamenti asiatici) alla Georgetown University, racconta l’aneddoto di cui sopra per dare una prima idea di ciò che è il suo ultimo lavoro.

Nel 2008, Karber è stato incaricato dalla Defense Threat Reduction Agency (Agenzia per la riduzione delle minacce) – un organismo del Pentagono la cui attività abbraccia un campo tanto vasto da spaziare dalle verifiche sulla riduzione degli armamenti alle perizie medico-legali – di investigare su un misterioso progetto cinese conosciuto come “La Grande Muraglia Sotterranea”. L’indagine avrebbe portato Karber a mettere in dubbio le convinzioni consolidate sulle dimensioni, e sugli scopi, del segretissimo arsenale nucleare cinese.

L’interesse dell’agenzia sull’argomento si è impennato in seguito al devastante terremoto che il 12 maggio ha investito la provincia del Sichuan. Al fianco delle convenzionali squadre di soccorso, Pechino inviò nella zona del disastro anche migliaia di esperti in radiazioni del Secondo Corpo D’Artiglieria, la branca dell’Esercito popolare di liberazione responsabile delle forze missilistiche strategiche nazionali, e quindi della maggior parte delle armi nucleari del paese.

Il coinvolgimento del Secondo Artiglieria fu una sorpresa relativa, perché nel Sichuan sorgono alcune installazioni nucleari chiave, incluso l’equivalente locale dei leggendari laboratori di Los Alamos. Maggior interesse destarono i rapporti circa la frana di vaste zone collinari, che avevano portato in superficie enormi quantità di detriti in cemento. Si cominciò a parlare della possibilità che una parte significativa dell’arsenale nucleare cinese, custodito in tunnel e depositi sotterranei, fosse andato perduto nel sisma.

Philip Karber cercò di capirne di più. Grazie all’aiuto di un gruppo di studenti esaminò attentamente una serie di foto satellitari, attinse a fonti in cinese e si giovò di altri materiali di ricerca – tutti disponibili pubblicamente, ma trascurati in Occidente. La conoscenza della storia fu un ulteriore aiuto.

Andare sottoterra è stata una pratica militare cinese per quasi duemila anni. Fu un’ossessione per Mao Tse-Tung, che a Pechino fece scavare una grande città sotterranea e che, verso la fine degli anni Sessanta, ordinò la costruzione della cosiddetta “Terza linea di difesa” nel timore di un attacco nucleare sovietico. Il colossale progetto prevedeva, tra le altre cose, un reattore nucleare e depositi corazzati per ospitare la prima generazione cinese di missili balistici intercontinentali, tutto sottoterra.

La mania scavatrice dei cinesi non terminò alla morte di Mao; anzi, si intensificò. Nel dicembre 2009, nel quadro delle celebrazioni per il sessantesimo dalla fondazione della Repubblica popolare, le forze armate hanno orgogliosamente annunciato che il Secondo corpo d’artiglieria ha costruito complessivamente tremila miglia di tunnel, la metà dei quali nel corso degli ultimi quindici anni.

Lo stesso Karber aiuta a farsi un’idea: “Se parti nel New Hampshire, passi per Chicago, poi per Dallas, e arrivi a Tijuana, beh, quelle sono più o meno tremila miglia”.

Perché il Secondo artiglieria ha scavato così tanto? Dopo tutto, esistono altri modi di mettere al sicuro un arsenale nucleare. E anche con una forza lavoro numerosa ed economica come quella cinese, il costo di quei tunnel – ben costruiti, ben illuminati, lastricati, spaziosi e lunghi, in media, sei miglia – è stato comunque immenso.

L’estensione degli scavi, peraltro, non riflette affatto le dimensioni attualmente conosciute dell’arsenale nucleare cinese, che si ritiene conti tra le 240 e le 400 testate. “Possibile che abbiano costruito un tunnel di dieci miglia per ogni singola testata?” si chiede Karber. “Non ha senso, sarebbe un’esagerazione folle”.

Tale osservazione ha spinto Karber a guardare da vicino le stime occidentali dell’arsenale nucleare cinese. Verso la fine degli anni Sessanta, le proiezioni americane lo facevano ascendere a 435 testate entro il 1973. Un’estrapolazione lineare a partire da questo dato porterebbe a un risultato nell’ordine di tremila estate al giorno d’oggi.

Nel 1984 la Defense Intelligence Agency stimava che la Cina avesse 818 testate per il 1994 e più di mille alla data attuale. Studi più recenti fissano quel numero tra 2.350 e 3.500 tenendo conto di una produzione annuale media, per l’ultimo decennio, di duecento testate. Al contrario, secondo il Natural Resources Defense Council l’arsenale atomico cinese ha raggiunto il suo picco nel 1980, e da allora è rimasto stabile.

Quanto sono esatte tutte queste stime? In mancanza di sopralluoghi, è impossibile dire qualcosa di certo; come osservava un rapporto del Consiglio per le relazioni con l’estero scritto dieci anni fa, “la Cina si segnala come il meno trasparente tra gli stati dotati di armi atomiche”.

Eppure, nonostante tale opacità, tra gli osservatori dall’estero prevalgono le stime più conservative. Hans Kristensen, membro della Federazione degli scienziati americani, ripete che i cinesi “non si sono lanciati in una corsa per raggiungere il pareggio con gli arsenali nucleari americano o russo.

In quei tunnel non stanno celando centinaia e centinaia di ordigni atomici. I tunnel, continua, non sono altro che “il tradizionale gioco cinese di nascondere quello che hanno, in questo caso la loro relativamente piccola forza missilistica”.

Karber non ne è convinto: “Un chilometro di tunnel costa quanto quattro o cinque armi nucleari e di sicuro quanto molti vettori”. Perché la Cina dedicherebbe così tante risorse a costruire una vasta rete di tunnel di protezione, e così poche alla realizzazione delle armi che quei tunnel devono custodire?

Di nuovo, sorge spontanea la domanda sulla credibilità del governo cinese quando parla di armi nucleari. Pechino non si stanca di ripetere che la sua politica si basa sull’assunto “mai il primo colpo”. Eppure, nel 2005, il generale Zhu Chengdu dichiarava al Wall Street Journal che la Cina avrebbe lanciato un attacco nucleare su “cento, o duecento” città americane, qualora gli Stati Uniti si fossero schierati al fianco di Taiwan nell’eventualità di un conflitto.

Pechino dichiara inoltre di aderire alla politica dei piccoli arsenali nucleari, descritta da un generale cinese come “il minimo indispensabile per una rappresaglia”. Anche qui, Karber ha i suoi dubbi.

La Cina è nel mezzo di un grande sforzo per ammodernare il proprio arsenale atomico, che include la realizzazione di missili balistici dalla testata multipla. Schiera già adesso una forza di quasi 1.300 sistemi missilistici tattici o di teatro, che possono venire armati tanto con una testata convenzionale quanto con una nucleare – ciò che permette alla Cina un immenso potenziale strategico in caso di guerra.

Karber sospetta che la Cina possieda fino a cinque missili per ogni lanciatore mobile. In altri termini, la discrepanza tra il numero noto di lanciatori e le stime di Karber si spiegherebbe col fatto che ogni lanciatore avrebbe a disposizione più “ricariche”.

Ma a cosa servirebbe, alla Cina, un arsenale atomico vasto e invulnerabile? Ormai da decenni chi è del ramo ha capito che la vittoria, in un conflitto atomico, arride a chi è in grado di sferrare un efficace “secondo colpo”; per riuscirci, è indispensabile un vasto arsenale dalle elevate capacità di sopravvivenza.

È stato lo stesso Secondo artiglieria a ricordare quelle teorie, quando, annunciando il completamento della Grande Muraglia Sotterranea, proclamò che da quel momento la Cina era in grado “di sostenere un attacco atomico”; che “Taiwan può cominciare a preoccuparsi per la propria indipendenza”; che la Cina non ha più motivo di “avere paura di una battaglia decisiva con gli Stati Uniti”.

Il dottor Kristensen derubrica tutto ciò a propaganda di regime, sottolineando che “i cinesi sono ben noti per propalare false informazioni volte ad ingannare un eventuale nemico”. Anche così, non si capisce perché coloro che in America sono incaricati di tenere sotto controllo l’arsenale cinese siano tanto inclini a credere alle dichiarazioni di Pechino, e declassino la gigantesca rete sotterranea come un equivalente cinese del Villaggio Potemkin (ossia, ad argomento di propaganda - ndt).

Karber, su questo, ha alcune convinzioni. Le basse stime dell’arsenale cinese, secondo lui, derivano dalla stima del numero di vettori – aerei, missili, sottomarini – che le possono impiegare. Ma questa stima è basata sul numero dei vettori osservati. Ebbene, sembra che “una certa inerzia abbia fatto sì che quel numero restasse pressoché invariato”.

Karber nutre anche il timore che a favorire le stime più basse sia il desiderio di restare in sintonia con le istituzioni. Nel governo americano, “il Pentagono e i circoli dell’Intelligence sono stati criticati, in passato, per avere elaborato le cosiddette ‘proiezioni sul caso peggiore’, e adesso tutti le evitano come la peste”.

Al di fuori del governo, “gli analisti d’armamenti si sono sforzati di minimizzare gli sforzi strategici dell’Esercito popolare, per non suscitare reazioni americane ‘non necessarie’ ”. Dopo tutto, si presume che la Cina sia il modello da seguire, visto che denuncia proprio quell’arsenale nucleare di ridotte dimensioni che tutte le potenze nucleari dovrebbero avere; una Cina assai più armata di quanto si crede sarebbe un fastidioso inconveniente per tutti coloro che spingono per ulteriori, drastici tagli degli arsenali nucleari.

Philip Karber è un uomo preciso, metodico, ed è convinto dell’opportunità di negoziare una politica di controllo degli armamenti con la Cina. Mi ha ripetuto più volte che la sua ricerca è lungi dall’ottenere risultati definitivi e che in ogni caso non può sostituire un vero lavoro di raccolta delle informazioni da parte dei servizi di Intelligence, né esclude la possibilità, per quanto inverosimile, che tutti quei tunnel siano stati fatti per custodirci testate, lanciatori e missili ancora da costruire.

Eppure, al di là di queste incertezze, i tunnel sono una realtà, che per di più il Pentagono ha riconosciuto per la prima volta soltanto quest’anno, nel suo rapporto annuale sulle forze armate cinesi. Nessuno tra quelli cui importi degli equilibri strategici può ignorare la montagna di evidenze messa insieme da Philip Karber, né tantomeno evitare di pensare a quello che potrebbe significare.

Ciò è vero in particolar modo per l’amministrazione Obama, che insieme alla Russia sta portando avanti un ambizioso programma di tagli agli arsenali nucleari, come se l’arsenale cinese fosse trascurabile.

Un tale assunto va rimesso urgentemente in discussione. L’alternativa è che la Cina, forte della sua ultramillenaria esperienza militare nel nascondere, fingere e sorprendere, un giorno – quando e come, lo vorrà lei – dia l’annuncio di aver raggiunto la supremazia in un campo che stiamo, stupidamente, regalando ai nostri sogni.

Autore: Bret Stephens

Tratto da The Wall Street Journal:
http://online.wsj.com

Traduzione a cura di: Enrico De Simone


Fonte italiana: https://www.loccidentale.it

 


 

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