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Un celebre adagio recita che la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Qualche volta però c’è una terza opzione che consiste nel capovolgimento della storia stessa. È ciò che sta accadendo in Asia. Infatti se oggi gli abitanti dell’isola di Taiwan scrutano l’orizzonte verso la terraferma per scorgere i segnali di un’invasione da parte di Pechino, in un passato recente erano invece i cinesi a temere l’arrivo del nemico.

 

 

Tutto ebbe inizio negli anni Sessanta del secolo scorso quando l’ossessione di Mao Zedong per un nemico invisibile alle porte diede vita al Terzo Fronte, una campagna volta a costruire un complesso militare industriale nell’entroterra montagnoso dell’allora giovane Repubblica popolare cinese. La paura all’epoca era che gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica, l’India e altre potenze ostili potessero invadere la Cina dal mare o dai confini terrestri per spartirsene le spoglie come un ricco bottino di guerra.

 

 

La dottrina del partito comunista già definiva lo sviluppo delle aree vicino al mare come un’eredità del colonialismo e il Grande Timoniere le considerava inoltre una facile preda per gli attacchi dei nemici. Mao, nelle riunioni con i vertici dello stato e richiamandosi anche alle teorie della guerriglia, ordinò quindi il trasferimento di industrie strategiche nell’interno più remoto e inaccessibile del Paese. L’opposizione di alcuni esponenti politici, tra cui Deng Xiaoping, fu superata quando nell’agosto del 1964 l’America accusò il Vietnam del Nord di aver attaccato una delle sue navi da guerra, un episodio che segnò l’avvicinamento ai confini meridionali cinesi di un conflitto e delle forze armate di una superpotenza.

 

 

A partire da allora almeno 15 milioni di persone furono reclutate in gran parte dalle regioni costiere o di confine e inquadrate in brigate militarizzate. La costruzione di una vera e propria fortezza arroccata e pronta alla guerra comportò un pesante costo in termini di vite umane e risorse. Il piano rimase un segreto per oltre un decennio.

 

 

Tra le misure approvate con più rapidità dopo l’escalation in Vietnam ci fu la costruzione di Panzhihua, una città nel sud ovest della Cina destinata alla produzione di acciaio, e il blocco dello sviluppo di nuovi progetti industriali in 15 centri urbani sulla costa. Su una pietra posta all’esterno del museo dedicato al Terzo fronte nella metropoli dello Sichuan si legge che “non riposerò sinché Panzhihua non sarà costruita”.

 

 

L’invasione temuta da Mao non si materializzò mai e alla fine degli anni Settanta il Terzo Fronte venne abbandonato del tutto. Le ferrovie e le altre infrastrutture costruite, insieme alle miniere, le fabbriche di armamenti e i siti nucleari contribuirono allo sviluppo della Cina più profonda ma la chiusura del programma portò alla cancellazione e allo smantellamento di molti progetti. A sopravvivere ancora oggi è però la sindrome dell’accerchiamento, per la verità frutto del cosiddetto Secolo Delle Umiliazioni, il periodo storico tra il 1839 e il 1949 durante il quale le potenze occidentali e il Giappone approfittarono della debolezza del Paese per occupare territori e sottomettere la popolazione.

 

 

La storia del Terzo Fronte e gli avvenimenti antecedenti alla nascita della Repubblica popolare cinese aiutano a comprendere l’attuale politica estera di Pechino e il perché di tanta aggressività in un’area che considera il proprio “cortile di casa”. Secondo tale logica Taiwan viene vista non solo come una parte integrante del gigante asiatico ma anche come una base che, se non riconquistata, potrebbe essere sfruttata dai nemici per colpire la Cina continentale. Si dice che quello attuale sarà il secolo cinese, ma non si sottolinea abbastanza come nelle intenzioni del presidente Xi Jinping questo sarà prima di tutto il secolo di un ritrovato orgoglio nazionale.

Fonte: https://it.insideover.com

 

 

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