Quando si parla di leggende urbane e di complottismi, i Balcani sono, da sempre, terreno molto fertile per ogni sorta di dietrologia e revisionismo. Probabilmente questo è, anche, in parte dovuto alla storica debolezza della Jugoslavia, non solo di quella comunista, costantemente sprofondata nella paranoia di eventuali ingerenze da parte delle potenze straniere. Non ne è immune - tutt'altro - quello che il giornalista Vladimir Jokanović ha definito una volta 'il fabbro più famoso di tutti i tempi', il dittatore Jugoslavo Josip Broz detto Tito. Massone, agente dell'NKVD, ebreo, compagno di scuola di Adolf Hitler e figlio illegittimo di Winston Churchill. Su di lui se ne sono dette di tutti colori, soprattutto dopo la morte.
L'ultima, in ordine di tempo, è la notizia che è emersa dall'apertura degli archivi della CIA. Dai forzieri dell'intelligence americana è emerso un documento del 1977, che gli esperti redassero a proposito di Tito. Lo studio concludeva, senza possibilità di errore, che Tito non sarebbe stato uno Jugoslavo, attraverso l'analisi fonetica dei suoi discorsi ufficiali. Josip Broz, probabilmente, fu 'un Polacco o un Russo', secondo la CIA, che però sottolineava esplicitamente che, nei fatti, questa circostanza avrebbe avuto una rilevanza «meramente accademica»
Per gli Stati Uniti, all'originale Josip Broz si sarebbe sostituita una seconda persona già negli anni trenta. Nel 1941, quando il capo dei cetnici, Draža Mihailović, incontrò il leader del PCJ, infatti, rimase convinto di avere di fronte a sé uno straniero. Dal forte accento russo.
La vita di Tito è sempre stata al centro di numerosi interrogativi e di ipotesi, se non verificabili, quantomeno stuzzicanti nella loro fantasia. In parte ciò avvenne per colpa stessa del leader, che si rifiutò sempre di dare dettagli circa la propria vita privata, soprattutto per quel 'buco nero' che va dalla fine della prima guerra mondiale alla fine degli anni trenta: un periodo che Tito avrebbe trascorso, secondo la versione ufficiale, prima come prigioniero in Russia, per poi avvicinarsi ai bolscevichi e ritornare in Jugoslavia, allo scopo di partecipare alla fondazione del PCJ.
Ma Josip Broz è morto nel 1915. Il 'vero', Josip Broz, quantomeno. Questo è quello che sostiene uno dei più quotati biografi del leader jugoslavo, Dragan Vlahović. Broz nacque, come raccontò lui stesso, nel villaggio di Kumrovac, vicino a Zagabria, nel 1892. Ma sarebbe morto nel 1915, come soldato dell'impero asburgico. Raif Dizdarević, politico molto vicino a Tito nel periodo della Jugoslavia comunista, assicura che «tra i documenti gelosamente custoditi da Tito, in un piccolo cassetto della 'villa bianca' (residenza del Maresciallo nella famosa isola di Brioni, dove egli trascorreva le vacanze), c'era un certificato di morte del soldato Josip Broz, ucciso in azione». Forse Tito lo conservava per semplice scaramanzia. O forse, secondo i 'complottisti', perché quella era l'unica prova che avrebbe potuto mettere in difficoltà il 'falso' Broz.
Ciò che è vero è che durante la Jugoslavia indagare la biografia del Maresciallo era estremamente difficile. E chi lo faceva, spesso, era oggetto di repressioni e censure. Secondo un altro biografo, Pero Simić, Tito sarebbe stato un agente dell'NKVD, i servizi segreti russi, che avrebbe avuto il delicato compito di organizzare negli anni trenta la cellula jugoslava del partito comunista. Anche il medico personale di Tito, Alexandar Matunović, dopo la morte del suo assistito si disse convinto che «l'uomo chiamato Josip Broz doveva per forza essere nato in una famiglia aristocratica. Le sue abitudini erano in tutto e per tutto aristocratiche, giocava a biliardo, a scacchi, cavalcava, giocava a tennis e parlava un gran numero di lingue straniere. Un po' strano, per un semplice fabbro». In una delle loro ultime conversazioni, Tito avrebbe rivolto al dottore queste parole: «di sicuro lei mi conosce bene, dottore, ma si illude se pensa di sapere tutto su di me. Nessuno conoscerà mai il vero Tito, come nessuno l'ha mai conosciuto finora. Io sono Faust, il Faust di tutti i Faust».
Tito avrebbe ucciso Stalin. Ammesso che Tito fosse un agente dell'NKVD, occorre però dire che i suoi rapporti con l'establishment moscovita non erano poi così buoni, specialmente dopo la plateale rottura consumatasi dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando il PCJ entrò in collisione con Stalin. Proprio la morte del dittatore sovietico sarebbe stata organizzata da Tito. A sostenerlo è addirittura l'illustre storico sloveno Jože Pirjevec, nel suo libro Tito in Tovariši. Quando Stalin morì, il 5 marzo 1953, sulla sua scrivania venne ritrovata una lettera vergata dal compagno Tito, il quale usava toni particolarmente minacciosi. Stalin aveva cercato di ammazzare Tito per ben 22 volte, inclusa una con uno scrigno di gioielli capace di emettere gas nervino una volta aperto.
«Smettila di mandare emissari a tentare di uccidermi, o la prossima volta ne manderò io uno a Mosca, e ti assicuro che non ne servirà un secondo». Questo, grossomodo, il contenuto della lettera rinvenuta sulla scrivania di Stalin. L'ipotesi, apparentemente non del tutto infondata, è che agenti inviati da Belgrado abbiano avvelenato il leader del PCUS, come da lui stesso riferito durante la sua agonia, che si protrasse per più giorni.
Tito era un ebreo, un massone, un figlio illegittimo di Winston Churchill. Altre teorie, più strampalate, sono state forgiate negli anni sull'identità di Tito. Alcune riguardano presunte conversioni in punto di morte del leader comunista. Tito prima di morire si sarebbe convertito all'Islam, una storia che è stata confermata sia dal suo segretario personale Berislav Badurina sia dal muftì di Belgrado di allora, Hamdi Jusufspahić. Ma secondo altri Broz, da buon croato-sloveno, si sarebbe riavvicinato alla religione dei propri padri, chiamando un prete per tornare alle sue origini cattoliche. Il religioso sarebbe stato ucciso in un secondo momento.
Tito, per altri, sarebbe stato un massone, circostanza confermata dai buoni rapporti che intercorrevano fra lui e altri 'massoni' come Winston Churchill e, soprattutto, il premier indiano Jawaharlal Nehru, con il quale concepì l'idea del movimento dei paesi non allineati terzomondisti.
Ma i legami con Churchill sarebbero ben più profondi, stando ad altre teorie complottiste che vorrebbero Tito nientemeno che il figlio illegittimo del politico che guidò la Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale. Il Maresciallo sarebbe infatti nato dall'unione illegittima di Churchill con una sua amante ebrea. L'elemento 'sionista', un vero must di dietrologie e complottisti, è presente anche in un'altra leggenda urbana, secondo la quale Tito sarebbe in realtà Joshua Ambroz Mayer, nato in una ricca famiglia ebraica di Vienna, il 7 maggio 1891. A coronare il tutto, la storia continua con un giovane Tito che frequenta le scuole proprio nella capitale dell'impero. Fianco a fianco con un giovanissimo Adolf Hitler.
Fonte: http://www.linkiesta.it
L’otto maggio 1980 a Belgrado, nel giorno dell’ultimo saluto al leader jugoslavo, erano presenti i capi di stato di 31 paesi, 22 primi ministri, 6 principi, 47 ministri degli esteri rappresentanti di 128 paesi da entrambe le parti della cortina di ferro, in un evento considerato il più imponente funerale di stato della storia.
Da quel giorno un alone leggendario e misterioso ha avvolto ancor di più la figura di Tito, secondo il quotidiano belgradese vecernje novosti l’elite dei governanti della terra rese omaggio ad una bara piena di sabbia dato che il corpo del dittatore martoriato dalla cancrena emanava un odore nauseabondo che impose una fulminea sepoltura.
Anche prima della sua morte furono tante le storie sul suo conto, Josip Broz fu additato di essere un ebreo, un compagno di scuola di Adolf Hitler, un massone, un agente dell’NKVD e il figlio segreto di Winston Churchill.
Una accreditata e seria storiografia mette in discussione perfino le sue radici jugoslave, attribuendogli origini russe o polacche; il suo serbo-croato non fu mai fluente ed alcuni gravi errori grammaticali instillarono il dubbio nell’opinione pubblica e non bastò a fugarli la versione secondo cui quel modo di parlare fosse dovuto al particolare dialetto delle terre natie.
Queste voci vennero sistematicamente messe a tacere dalla stampa, poco o nulla filtrò fuori dalla Jugoslavia nel periodo dell’interregno titiano forse a causa della funzione cuscinetto anticomunista che il paese balcanico si era ritagliato sullo scacchiere internazionale ed un diretto interesse dunque della stampa internazionale notoriamente in mano ai paesi occidentali
Il sospetto diventa qualcosa di più concreto leggendo alcuni documenti della C.I.A. desecretati, segnatamente il The trend of Soviet-Yugoslav relations del 18 novembre 1948 ed il The Yugoslav dilemma del 10 febbraio 1949 entrambi venuti alla luce dopo molti anni dalla rispettiva stesura ed abbondantemente dopo la caduta del muro di Berlino e la disgregazione della Jugoslavia.
Il 27 giugno 1948 Stalin espelle la Jugoslavia dal Cominform quale nemico dell‘U.R.S.S. accusandola di deviazionismo dal comunismo, nazionalismo e trotzkismo, manna caduta dal cielo per gli uomini della C.I.A. che spostano sulle cartine il confine della cortina di ferro verso est riconoscendo il paese balcanico come stato neutrale.
Il potere di Tito cominciò durante la seconda guerra mondiale quando fu a capo militare di una nazione invasa, su cento partigiani 44 erano serbi, 30 croati, 10 sloveni, 5 montenegrini, 2,5 macedoni, lui riunì dietro una bandiera un esercito senza distinzione di religione e di razza.
Giovò a suo favore il tentativo di disgregazione perpetrato dalla forza italo-tedesca e quando nel 1941 il Deutsche diplomatisch-politische titolò “Lo sgangherato anticontinentale stato Yugoslavo è crollato” fu ancora più facile per lui ergersi innanzi al frastagliato popolo come capo della Repubblica Federale Jugoslava.
Fu allora che Walter (così ancora lo chiamavano) morì virtualmente e nacque ufficialmente il Maresciallo Tito.
Anche a quell’epoca circolavano tante storie sul suo conto, figlio illegittimo di un nobile ungherese, servo dei conti di Erdody ma l’ipotesi più gettonata propendeva per un rapporto di parentela con Winston Churchill.
Il premier inglese infatti, durante la seconda guerra mondiale, abbandonò il monarchico Draza Mihailovic leader dei cetnici per appoggiare l’astro nascente dei Balcani; questa scelta fu influenzata dall’opera di disinformazione di James Klugmann, talpa sovietica tra gli agenti di sua maestà, dato che a quel tempo Tito era un uomo in mano ai comunisti, prima del clamoroso voltafaccia.
I dettagli di questa operazione di spionaggio figurano nel rapporto che descrive l’operazione Special Operations Executive nell’area balcanica, un carteggio di 969 cartelle ora di pubblico dominio.
Dunque Tito fu innalzato dai russi ed in corso d’opera voltò le spalle ai suoi protettori foraggiato dall’Occidente; questa potrebbe essere una versione attendibile anche se la sua doppiezza d’alto profilo consta di numerosi altri capitoli.
Il cambiamento ufficiale di casacca avvenne ufficialmente il 28 giugno 1948 quando a Bucarest venne votata all’unanimità l’espulsione con ignominia della Jugoslavia dal Cominform; votarono questa risoluzione i rappresentanti di Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Francia ed Italia.
Ma quando Palmiro Togliatti verso la fine del 1948 si recò a Belgrado in visita, agli osservatori i rapporti sembrarono tutt’altro che tesi, qualcuno già allora adombrò l’ipotesi della sceneggiata internazionale.
I metodi titiani non furono molto diversi da quelli staliniani, dalle foibe alle purghe interne una lunga scia di sangue accompagnò la figura di Tito in quegli anni, nel solo 1950 furono emesse in Croazia 7863 pesanti condanne alla detenzione per infrazione alle leggi sugli ammassi obbligatori, gli oppositori del regime sparivano senza lasciare traccia da un giorno all’altro, dodicimila carcerati di Quarnaro furono rieducati con atroci torture fisiche e psicologiche, molti non tornarono a casa.
Ernest Bevin, ministro degli esteri britannico del dopo Churchill, dialogando con Dean Acheson, suo collega americano disse: “Tito è un mascalzone, ma è il nostro mascalzone”.
Le cronache del tempo tramandano ai posteri anche una battuta dello stesso Winston Churchill, il quale rispondendo ad uno dei suoi uomini che gli faceva notare gli effetti devastanti che avrebbe avuto il regime di Tito sulla vita futura delle Repubbliche jugoslave disse “Lei ha forse intenzione di trasferirsi in Jugoslavia dopo la fine della guerra?”
Proprio in quegli anni la C.I.A. aveva arruolato la mafia siciliana utilizzata durante lo sbarco alleato (vedi articolo) e successivamente braccio armato della Democrazia Cristiana per il governo del paese e per combattere l’avanzata dei rossi, da Washington non si erano creati scrupoli ingaggiando ex fascisti, gruppi di estrema destra, esponenti della massoneria, delinquenti comuni; dunque la chiave di volta per inquadrare la vicenda balcanica potrebbe essere la lotta al comunismo, Tito in sintesi serviva all’Occidente.
A Mosca andarono su tutte le furie, una loro creatura gli si era rivoltata contro.
Nikita Krusciov rivelò nel suo rapporto segreto al XX congresso del PCUS tutta la rabbia di Stalin che avrebbe detto: “Basterà che io muova il mignolo e lui non esisterà più”. Ma le cose non andarono così, Tito aveva le spalle ben coperte e si oppose con forza al progetto russo di creare delle società miste russo-jugoslave nei settori strategici dell’energia, dell’estrazione e trasformazione di minerali, dei trasporti marittimi e terrestri e della creazione di una banca comune.
Inoltre assieme al leader bulgaro Georgy Dimitrov pensava ad una Federazione balcanica comprendente tutte le democrazie popolari, in antitesi con le propensioni autoritaristiche di Mosca.
Questa fu la scintilla per la rottura definitiva, ma Belgrado non era ne Praga ne Budapest, al Cremlino tennero in rispetto il Maresciallo Tito, forse perché anche i russi ritennero che tenere aperto un canale negoziale con l’Occidente poteva essere una cosa buona in caso di escalation militare.
Così dovette pensare lo stesso Krusciov quando assieme a John Fitzgerald Kennedy sposò l’idea del dialogo con l’Occidente, poi bruscamente interrotto dai tragici eventi, dall’uccisione del presidente americano fino all’invasione di Praga.
Puntuale arrivò la zampata del Maresciallo Tito verso Leonid Ilijc Breznev, il 23 agosto del 1968 mentre le truppe del patto di Varsavia invadevano la Cecoslovacchia Tito condannò “l’azione violenta dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati”.
Ma a quel punto le posizioni erano molto ben delineate, la Jugoslavia veniva foraggiata segretamente, ma non tanto, dall’Occidente ed all’Occidente rendeva tutto sommato conto seppur dietro una scocca di orgoglioso nazionalismo perfettamente interpretato dal proprio leader.
E qui Tito fu croce e delizia, non rinunciò al sistema di autogestione jugoslavo, il bizzarro sistema secondo il quale i lavoratori portano avanti l’azienda; l’inflazione fu da paese sudamericano, le svalutazioni del dinaro ripetute, il debito con l’estero fu sempre alto e per concludere la “questione meridionale” sulla falsariga dei dirimpettai italiani.
Infatti vi fu sempre un divario economico notevole tra le repubbliche del nord ovest e quelle del sud-est, ciò alimentò non pochi grattacapi sul fronte interno.
Nel novembre del 1971 gli studenti universitari di Zagabria protestarono perché secondo loro i redditi nazionali venivano redistribuiti ingiustamente fra le varie repubbliche, il seme della discordia era già ben impiantato nel paese ma Tito era ancora vigoroso e rispose col pugno di ferro.
In quegli anni la Jugoslavia veniva considerata leader dei paesi non allineati anche se la politica estera di Belgrado aveva non pochi lati oscuri.
Vi sono prove certe degli appoggi e delle coperture fornite da Tito e dai suoi subalterni al terrorismo internazionale, alle Brigate Rosse ed ai guerriglieri palestinesi; alcuni componenti del commando di Settembre Nero che il 4 agosto 1972 fecero esplodere a Trieste l’oleodotto che collegava la Baviera all’Adriatico arrivarono sull’obbiettivo dalla Jugoslavia dove trovarono l’esplosivo per l’attentato.
Il marchio più infamante della storia di Tito risale a molti anni prima, quando nei lager jugoslavi gli internati italiani subirono atroci torture e sofferenze che ancora oggi gridano vendetta.
Vi è un ampio resoconto di ciò nei rapporti stilati da uomini dei Servizi Speciali della Marina, una cinquantina di pagine corredate da testimonianze agghiaccianti e fotografie inequivocabili circa le condizioni degli sfortunati compatrioti nei campi di Borovnica (40B-D2802) e Skofjia Loka (11-D-2531) detti appunto i “campi della morte”.
E poi ancora Stara Gradisca, Osseh, Goli Otok, veri e propri campi di concentramento sfuggiti alla ribalta mediatica dei più conosciuti campi tedeschi ma non meno terribili e crudeli per i detenuti; erano i giorni del terrore e delle foibe, una macchia indelebile nella storia di questo dittatore che ha avuto il merito di tenere unito dietro una bandiera popoli di variegate razze e religioni, ma a cui va addebitato oltre ogni ragionevole dubbio l’atroce appellativo di inventore della “pulizia etnica” che si sarebbe concretizzata dopo la sua morte, ritorcendosi però sui suoi compatrioti, dopo la sua morte avvenuta in una clinica di Lubiana alle 17 del 4 Maggio 1980.
Con Tito quel giorno morì anche la Jugoslavia, la storia più strana dell’Europa dell’ultimo secolo, un autentico miracolo politico di cui bisogna rendere merito a quest’uomo dalla tempra straordinaria e probabilmente ad altri invisibili diplomatici e faccendieri al servizio dell’establishment occidentale.
La storia della Jugoslavia ha una morale che dovrebbe essere colta in questi tempi di incertezze continentali, dato che il percorso di questo piccolo e pur importante paese europeo ricalca in piccolo la storia della strampalata Europa, accozzaglia di popoli diversi e diverse economie tenute insieme con la forza al servizio di un bene supremo che i cittadini dei singoli stati fanno sempre più fatica a comprendere, nulla fomenta la guerra quanto la pace forzata.
Che la storia jugoslava, che il suo triste epilogo sia un monito ai poco illuminati parrucconi di Bruxelles.
Bibliografia magazine “Storia e Verità” 2017 Giuseppe Barcellona
Fonte: http://www.difesaonline.it