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Questo è un ospedale. La stanza è la 313. Il bambino guarda la nonna, guarda il gatto sul letto e poi la madre: «Cosa ci fa lì sopra». La mamma risponde con un sorriso senza speranza: «È qui per aiutare la nonna ad arrivare in cielo». Dicono che lui, il gatto, senta la morte. Oscar è bianco e grigio, occhi piccoli, strizzati, soffice come un peluche e un brutto carattere. È nato qui, due anni fa, nella clinica Steere House di Providence, Rhode Island, Stati Uniti.

 

 

È un ospedale per anziani con malattie degenerative. Oscar se ne sta spesso per i fatti suoi, nessuna confidenza, niente carezze. Ma ogni mattino, da quando aveva solo sei mesi, fa il suo giro di visite. Passa davanti alle stanze dei pazienti, si ferma, annusa, e va via. Quando resta vuol dire che non c’è più nulla da fare. In un anno e mezzo è capitato 25 volte. È l’angelo della provvidenza. Salta sul letto e aspetta, raggomitolato, fino alla fine. Chi passa lo ascolta fare le fusa. Medici e infermieri ormai sanno che questo è il momento di avvertire i parenti. Oscar non sbaglia mai. L’ultimo respiro è difficile da percepire. È un battito un po’ più profondo degli altri. È un addio silenzioso. Ma i gatti hanno occhi che vedono anche di notte, sentono oltre e nell’istante preciso in cui tutto è compiuto Oscar si alza e lascia la stanza. Felpato, senza un rumore, taciturno come sempre. Un medico racconta che di solito tra l’arrivo di Oscar e la morte passano poche ore. «Non più di quattro». Providence non è una città qualunque. Qui, in una grande casa vittoriana di legno marrone al numero 10 di Bernes Street, viveva Howard P. Lovecraft. L’autore dei Cicli di Cthulhu, lì dove l’uomo si specchia nei suoi orrori, la psiche diventa corpo e la metafisica dei nostri incubi genera la carne dei mostri, aveva una passione quasi paranoica per i gatti. C’è anche un suo saggio, "Something about cats", pubblicato sulla rivista Leaves nel 1937, ma è nel racconto "I gatti di Ulthar" che Lovecraft svela i segreti di Oscar. «A me basta osservarli quando fanno le fusa accanto al fuoco. Il gatto è misterioso e affine alle cose invisibili che l’uomo non potrà mai conoscere. È l’animo dell’antico Egitto, è il depositario di racconti che risalgono alle città dimenticate di Meroe e Ophir, è l’erede dei segreti dell’Africa oscura e misteriosa. La sfinge è cugina del gatto, che parla la sua stessa lingua ma è più antico e ricorda cose che essa ha dimenticato». Ecco, capite perché la storia di Oscar, così vera da evocare le fantasie nere del New England di Lovecraft, non poteva aver luogo che qui, a Providence. Dicono che le prime a notare il mistero di Oscar siano state le infermiere. La notizia è arrivata fino al New England Journal of Medicine e dall’Università di Brown è stato inviato David Dosa, specialista in geriatria. «Sembra che Oscar faccia sul serio il suo lavoro. Non fa mai errori. Come un sensitivo sembra riesca a percepire quando un paziente è vicino a morire». Il caso sta appassionando gli scienziati. Dotti, medici e sapienti guardano il gatto e si interrogano. Qualcuno si è messo a studiare la giornata tipica di Oscar e c’è tutto il fascino della scienza che incontra l’indefinibile. La dottoressa Joan Teno racconta che una paziente non mangiava più, aveva problemi di respirazione e le sue gambe erano di un colore bluastro, sintomi di una morte imminente. Ma Oscar quella volta non era rimasto nella stanza. «Pensavo si fosse sbagliato, ma dopo dieci ore è apparso. È rimasto due ore accanto alla paziente e solo allora la donna è morta». Il New England Journal of Medicine non crede che Oscar sia un gatto magico. La scienza cerca, sempre, prima altrove. Il felino è sveglio, certo, e le ipotesi sono varie. Forse, come accade a volte anche agli infermieri, riesce a interpretare il respiro affannoso del moribondo. Forse è l’odore, qualcosa che il gatto riesce a percepire grazie al suo olfatto. Forse Oscar è, come il dottor House, un ottimo osservatore. La dottoressa Teno se la cava così: «Credo che alcune sostanze chimiche vengano rilasciate nell’atmosfera quando uno è sul punto di morire. E il gatto le riconosce». O magari aveva ragione quel vecchio folle di William S. Burroughs quando scriveva in "Compagno psichico": «Noi siamo il gatto che è in noi. Siamo i gatti che non possono camminare da soli, e per noi c’è un posto soltanto».
Vittorio Macioce

Fonte: http://www.ilgiornale.it

 


 

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