Nella seconda metà degli anni ’50, con l’inasprirsi della Guerra Fredda tra il blocco occidentale e il neonato blocco sovietico (Patto di Varsavia, 1955), divenne quanto mai indispensabile per l’intelligence americana poter ottenere il maggior numero di informazioni possibili sullo stato delle armate sovietiche e sull’eventuale dispiegamento dei grandi protagonisti di questo conflitto, i sistemi missilistici intercontinentali. In un’epoca in cui la corsa allo spazio era agli albori e i satelliti-spia una realtà presente solo in alcuni avveniristici progetti top secret, l’importanza dei ricognitori aerei crebbe a dismisura. Gli Stati Uniti schieravano gli U-2 “Dragon Lady”, entrati in linea nel 1955 ma già considerati obsoleti nel 1958 a causa del rapido avanzamento della tecnologia missilistica e dei sistemi antiaerei. La C.I.A. contattò quindi la Lockheed, azienda leader nel settore della difesa, ponendo le basi per la nascita di un nuovo ricognitore “non individuabile” e “non abbattibile”.
Nome in codice: “Progetto Archangel”.
La necessità di un nuovo ricognitore fu resa ancora più stringente il 1° maggio 1960, quando l’U-2 pilotato da Francis Gary Powers fu abbattuto sui cieli dell’Unione Sovietica, innescando una gravissima crisi diplomatica tra i due blocchi. La C.I.A. a quel punto aggiunse nuovi requisiti al progetto Archangel, richiedendo una forte riduzione della segnatura radar dei diversi progetti presentati dalla Lockheed. Ne scaturì un nuovo progetto, OXCART, a cui partecipò anche la N.A.S.A., interessata ai progressi tecnologici che lo sviluppo del nuovo aereo avrebbe comportato. “Kelly” Johnson, visionario ingegnere a capo del team di sviluppo, partorì nel 1961 l’A-12 (foto), diretto progenitore dell’SR-71. Furono tre le principali versioni progettate: un intercettore, un ricognitore e un bombardiere. Le versioni intercettore e bombardiere vennero scartate (soprattutto per non togliere fondi allo sviluppo del XB-70 Valkirie), mentre venne messo in produzione il ricognitore, rinominato SR-71. Nel 1967, dopo una lunga gestazione, il più veloce aereo pilotato mosso da un esoreattore della storia umana entrò in servizio. I 31 esemplari costruiti stabilirono una serie di record che durano tutt’oggi: massima quota di tangenza in volo sostenuto (26.000 m) e massima velocità di volo raggiunta (3.529 km/h), con l’aggiunta di diversi record di percorrenza di tratte classiche (ad esempio, West coast-East coast in 1h e 8 minuti). Soprattutto, però, l’aereo riuscì egregiamente nel compito per cui era stato progettato: nessuno dei 31 esemplari entrati in servizio fu mai abbattuto in missione, meritandosi quindi l’affettuoso soprannome di “Untouchable” (intoccabile).
La tecnica.
Le problematiche ingegneristiche affrontate nella realizzazione di una macchina di tale complessità furono molteplici. Su tutte, la necessità di trovare un propulsore adatto che fornisse la spinta sufficiente e che potesse operare alle più disparate condizioni di quota e velocità (dal regime subsonico a basse altitudini sino al regime supersonico a 26000 m). La scelta ricadde sul Pratt&Whitney J58, un motore ancora in fase di sviluppo pensato per operare ad alti numeri di Mach. L'apparato si sostanziava in un classico turbogetto con postbruciatore, tuttavia con una interessante peculiarità. Per ovviare al problema dello stallo degli stadi di compressione ad alte velocità, incapaci di gestire il flusso d’aria in ingresso per Mach di volo superiori a 2.2, veniva mossa una paratia che convogliava il flusso in ingresso, adeguatamente compresso dall’azione della presa d’aria, direttamente alla camera del postcombustore, escludendo dunque dal ciclo i compressori stessi, la camera di combustione principale e le turbine. Il motore così trasformato diveniva uno statoreattore (ramjet). Il ramjet è una tipologia di propulsore aeronautico che non contiene organi meccanici mobili al suo interno (turbine e compressori), ma sfrutta le onde d’urto sviluppate dall’inlet durante il volo supersonico per comprimere il flusso per poi attuarne la combustione in camera e l’espulsione tramite ugello. Componente fondamentale di questo processo era dunque la particolare presa d'aria, la cui geometria consentiva la compressione del fluido in ingresso al motore tramite la generazione di un treno di onde d'urto oblique, rendendolo adatto alla combustione direttamente nel postcombustore. Tale soluzione permetteva persino il miglioramento dei consumi grazie all'eliminazione delle perdite energetiche legate all'operato delle turbomacchine escluse dal nuovo ciclo termodinamico! Il design della presa d’aria divenne quindi il fulcro attorno a cui si concentrarono gli sforzi degli ingegneri. Come abbiamo detto, questa doveva essere in grado di fornire al motore il giusto quantitativo di aria alla giusta velocità e pressione sia per l'ampio range di quote e velocità affrontate dall'aereo sia per la tipologia di propulsore adottata. Si optò quindi per una complessa geometria a spina retrattile seguita da un condotto convergente-divergente a geometria variabile. Per velocità subsoniche la spina era completamente estratta, massimizzando l'area di cattura del motore. In campo supersonico, l'apparato veniva fatto arretrare all'incirca di 4 cm per ogni incremento di 0.1 Mach. La forma a spina consentiva di generare delle onde d'urto oblique, meno intense rispetto alle onde d'urto normali che si sarebbero ottenute con altre conformazioni poiché agenti solo sulla componente a loro perpendicolare del vettore velocità, che rallentassero e comprimessero il fluido. Dopo aver subito l’azione di questo primo treno di onde d’urto, l'aria veniva convogliata nel condotto convergente-divergente composto dalle pareti esterne del motore e dal tratto iniziale della spina stessa, in cui si formavano altre onde oblique ed un'onda d'urto normale. L'obbiettivo degli ingegneri era posizionare tale onda d'urto normale nella gola del condotto, poiché in tale zona la velocità del fluido era prossima a Mach 1 e pertanto l'onda, la cui intensità dipende dal Mach del flusso su cui agisce, sarebbe stata molto debole causando quindi poche perdite energetiche. Per mantenere l'onda d'urto in gola alle varie velocità furono progettati dei condotti di bypass che, sottraendo un certo quantitativo di aria, gestissero la pressione e la temperatura all'interno della presa. Inoltre, la movimentazione della spina consentiva di modificare la geometria del condotto convergente-divergente, in modo da ottenere una velocità prossima al Mach 1 in gola per le varie velocità di volo. Raggiungendo queste condizioni di funzionamento, la presa d'aria risultava avviata, cioè causava poche perdite energetiche e forniva al ramjet un flusso ad alta pressione. Tale capolavoro ingegneristico portò alla nascita di un motore in grado di erogare 145 KN di spinta e di funzionare ai vari regimi di volo richiesti all'aereo. Anche il progetto della struttura non fu esente da problemi. Infatti, il volo ad alti Mach comportava un surriscaldamento elevato della cellula dell’aeromobile (tanto da comportarne il cambio di colore da nero a blu!) dovuto all’attrito sviluppato dal contatto tra il flusso d’aria e le pareti. In diverse zone venivano raggiunti i 300 °C, pertanto le classiche leghe d’alluminio utilizzate all’epoca non poterono essere utilizzate. Al loro posto debuttò un rivestimento quasi del tutto in titanio (90% della cellula), che a dispetto degli alti costi non subiva un degrado delle proprietà meccaniche alle alte temperature. Anche il progetto dei serbatoi fu particolarmente complesso. Le alte temperature infatti causavano un’espansione dei materiali utilizzati, dunque per evitare rotture fu necessario lasciare delle intercapedini libere che il materiale potesse andare ad occupare. I serbatoi così progettati diventavano stagni solo alle alte velocità, mentre in decollo ed atterraggio si avevano trafilamenti di combustibile! L’SR-71 fu anche il primo aereo per cui si utilizzarono soluzioni strutturali per ridurre la sua impronta radar, diminuendo di molto la sua radar cross-section (misura della capacità di un corpo di riflettere il segnale radar nella direzione del radar ricevente). Vennero studiati appositi pannelli radar-assorbenti e l’aereo venne pitturato di nero per ridurne l’emissività legata al riscaldamento strutturale (da qui il soprannome “Blackbird”). Si può quindi affermare che fu il primo progetto ad incentrare il suo sviluppo intorno a requisiti di stealthiness.
Fonte: http://www.difesaonline.it