(Da Medaram) Ci avevano detto che Medaram sarebbe stata facile da raggiungere e che una volta arrivati ad Hyderabad, in qualche ora ce l’avremmo fatta. Saliamo su un autobus pubblico per la nostra destinazione finale e scopriamo, facendo la media delle informazioni che gli altri passeggeri ci danno, che non sarebbe stato un viaggio semplice e, soprattutto, che non sarebbe stato così veloce come avevamo pensato. Il tempo per percorrere i 250 chilometri che separano Hyderabad – capitale del Telangana, Stato del centro-sud dell’India – e Medaram va calcolato ad una velocità media di venti chilometri orari, perché le strade sono in gran parte non asfaltate e soprattutto perché ad ogni fermata la folla si accalca per salire sul nostro autobus, ormai strapieno. Il viaggio è comunque divertente. Guardando fuori dal finestrino vedo persone stipate su ogni tipo di mezzo, carretti a buoi, carretti a trattore, gente su cavalli o asini, famiglie intere sui classici autorickshaw (tuc tuc) e tantissimi autobus, strapieni, come il nostro. Molte persone arrivano con questi mezzi dopo giorni e giorni di viaggio. Noi, alla fine, per arrivare ci abbiamo messo circa undici ore. Medaram è un piccolo villaggio che una volta ogni due anni viene preso letteralmente d’assalto da centinaia di migliaia di persone, qualche milione secondo la stampa locale, per partecipare al Sammakka Sarakka Jatara, il più grande festival tribale dell’Asia, che dura due giorni. La storia racconta che nel tredicesimo secolo, dei capi delle tribù locali trovarono una neonata che, giocando con le tigri, emetteva una luce propria. La portarono nel loro villaggio, le diedero il nome di Sammakka Saracca e, da allora, divenne la Dea della comunità. Oggi, a distanza di quasi mille anni, Sammakka è adorata da milioni di persone dell’India tribale, quella parte della popolazione chiamata “adivasi”, ed è identificata nelle manifestazioni della natura. Secondo la credenza, la sua più importante espressione è in un albero del villaggio, posto all’interno di un tempio. Il luogo è preso d’assalto, gli spazi sono enormi e solo qualche albero si erge da un terreno desolato, secco e polveroso. Il caldo è insopportabile. In poche ore centinaia di migliaia di tende e baracche vengono montate e la folla invade ogni spazio possibile ed immaginabile del villaggio, la ressa è scioccante, per ventiquattro ore al giorno. Nel centro è posta un’enorme giostra, vecchio stile, che non smetterà mai di funzionare e che farà divertire, per poche rupie, migliaia di bambini durante il festival. Per mangiare le persone si sono organizzate autonomamente. L’acqua, invece, viene contesa dalle poche fontane pubbliche appositamente installate per l’evento. Anche molte persone di religione induista partecipano, più come spettatori, sostenendo che comunque la loro presenza potrebbe portare fortuna nella loro vita. Molte usanze che vediamo, in effetti, sono comuni ad altre religioni. Il festival comincia infatti con il rituale della rasatura dei capelli e delle docce purificatrici, tipiche anche di quell’universo di pratiche e filosofie, chiamato induismo. La folla poi si riversa nel tempio centrale, dove viene custodito il primo dei due rami dell’albero adorato che rappresenta la dea, dove migliaia di persone lanciano le loro offerte, in genere frutta e dolci ed entrano freneticamente per toccare il sacro ramo, dopo ore e ore di fila, in un delirio totale e collettivo. Con un ritmo crescente comincia una serie di atti propiziatori; la dea Sammakka “entra” nel corpo di decine di donne, usate come “medium”, prendendone il totale controllo di corpo e anima. La voce cambia, lo sguardo anche, gli uomini osservano sbigottiti mentre i parenti cercano di proteggerle perché non si facciano del male. Questa esperienza, tutta al femminile, migliorerà, secondo la credenza, la loro e la vita della loro famiglia. Cominciano quindi i balli e i canti di Sammakka, innumerevoli sono i gruppi di donne che danzano e cantano. Sorprende anche la presenza di parecchi travestiti. Altri pellegrini disegnano sul terreno i tradizionali e bellissimi “rangoli”, mandala o yantra (in Hindi) fatti con pigmenti di fiori che rappresentano la formazione dell’universo e possono essere utilizzati anche per la meditazione. L’apice dei rituali viene raggiunto quando iniziano i sacrifici animali per la dea. Decine e decine di galline e capre vengono sgozzate con rituali macabri che prevedono prima la somministrazione di alcol all’animale, poi il lavaggio del muso, ed infine, appunto, il terribile taglio della giugulare. La sofferenza delle creature è evidente mentre tutto intorno la festa, tra canti, balli ed euforia, continua. Il festival prosegue con una cerimonia intorno all’albero che rappresenta la dea, che si trova insieme al secondo ramo sacro, in un tempio, a qualche chilometro dal villaggio. Improvvisamente, una folla letteralmente impazzita cerca di strapparne la corteccia ed i rami per portarseli a casa, come cimeli, anche se gli organizzatori cercano di evitarlo. L’ultima processione è l’atto finale: una folla eccitatissima che tra urla, grida e spintoni porterà il secondo ramo sacro, avvolto in una bandiera, nel luogo del primo ramo, nel centro del villaggio. La congiunzione dei due rami determina la fine del festival e la dea Sammakka accompagnerà, vigilerà e proteggerà i propri fedeli per i successivi due anni, fino a quando tutto si ripeterà di nuovo.
Fonte: http://www.occhidellaguerra.it