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Rappresentazione grafica di un eventuale nanotrasmettitore wireless da innestare nel cervello.



La chiamano Brain/Cloud Interface (B/CI) la futuristica tecnologia, oggi non più vista come qualcosa di appartenente solo alla fantascienza, grazie alla quale le persone potranno un giorno avere un accesso istantaneo a tutti i dati su Internet, sostanzialmente buona parte di tutte le conoscenze umane, attraverso il solo pensiero. La stessa società per come la conosciamo si trasformerebbe e non sarebbe più la stessa. Tutto ciò sarebbe possibile, secondo i ricercatori di una collaborazione internazionale tra l’Università di Berkeley e l’Institute for Molecular Manufacturing statunitense, grazie anche alle enormi potenze di calcolo e alle ampliate larghezze di banda che saranno disponibili in futuro. Inizialmente proposto da Ray Kurzweil, il concetto di cervello collegato direttamente ad Internet senza l’ausilio di cavi o complessi macchinari prevede l’innesto, nello stesso cervello, di nanorobot neuronali. Questi ultimi servirebbero per collegare la neocorteccia ad una equivalente neocorteccia sintetica disponibile nel cloud. Questi microscopici dispositivi navigherebbero nel sistema vascolare umano e attraverserebbero la barriera emato-encefalica, andandosi ad istallare anche all’interno delle cellule cerebrali. Potrebbero permettere la trasmissione wireless in entrambe le direzioni, da e verso il cervello, di informazioni digitali proprio come facciamo oggi con un comune smartphone. “Un sistema B/CI umano mediato da nanorobot neuronali potrebbe consentire alle persone con accesso istantaneo a tutte le conoscenze umane cumulative disponibili nel cloud, migliorando significativamente le capacità di apprendimento umano e l’intelligenza”, dichiara Nuno Martins, uno degli autori dell’articolato studio che descrive questa possibile tecnologia futura apparso su Frontiers in Neuroscience. Si andrà, dunque, ben oltre l’Internet delle cose per arrivare ad una “Internet dei pensieri” grazie alle nanoparticelle robotiche. Queste ultime sarebbero già state testate sui topi “per accoppiare campi magnetici esterni a campi elettrici neuronali, cioè per rilevare e amplificare localmente questi segnali magnetici e consentire loro di alterare l’attività elettrica dei neuroni”, come spiega lo stesso Martins il quale aggiunge che il sistema potrebbe funzionare anche al contrario amplificando i segnali elettrici prodotti dai neuroni.

Fonte: https://notiziescientifiche.it

 

 

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