Quando vediamo film di fantascienza che prevedono lunghi viaggi nello spazio, spesso i protagonisti a bordo delle astronavi passano la maggior parte del tempo del viaggio semplicemente dormendo, ibernati in quelle che possono essere considerate come delle capsule. Si tratta di uno dei metodi più applicati, invero, dalla fantascienza proprio per ovviare alla lunghezza dei viaggi e quindi per rendere più plausibili le trame: se si considerano come mete i pianeti extrasolari, i viaggi spaziali, almeno con la tecnologia odierna e con quella del futuro prossimo, potrebbero durare decenni se non centinaia di anni. Durante periodi così lunghi, gli esseri umani potrebbero invecchiare troppo, potrebbero avere dei problemi di sanità mentale o potrebbero semplicemente annoiarsi a morte. Non si tratta, però, di un tema relativo alla sola fantascienza: l’azienda SpaceWorks di Atlanta, una società di ingegneria aerospaziale specializzata nella progettazione e nella valutazione di concetti avanzati per clienti pubblici e commerciali, ha infatti ricevuto un finanziamento dalla NASA per valutare proprio la fattibilità dell’ibernazione umana da applicare agli astronauti nei viaggi spaziali più lunghi. Segnale del fatto che la stessa NASA prende seriamente in considerazione un’opportunità del genere, anche per i viaggi più limitati come quelli verso Marte. John Bradford, presidente di SpaceWorks, dichiara che al momento il limite per quanto riguarda la durata dell’ibernazione umana in contesti del genere, è di 14 giorni, un paio di settimane durante le quali la temperatura interna del corpo è abbassata di circa 5 °C . A temperature del genere il corpo va in ipotermia e cade in uno stato di sonno che riduce il tasso metabolico dal 50 fino a 70%. Uno stato simile a quello degli animali, come ad esempio gli orsi, che vanno in letargo. Un equipaggio “in letargo” ha infatti bisogno di meno spazio per muoversi e in generale di un livello minore di energia, dunque meno cibo, meno acqua e anche meno aria da respirare. Vantaggi che potrebbero essere sfruttati per l’architettura relativa all’abitacolo stesso del modulo utilizzato per il viaggio, che potrebbe essere molto più piccolo e più leggero. A seguito delle due settimane, gli astronauti potrebbero poi riprendersi, passando un paio di giorni in stato di coscienza, per poi rimettersi di nuovo in ibernazione, un ciclo da ripetere fino a quando non si giunge a destinazione. Inoltre le capsule all’interno delle quali gli astronauti dormirebbero potrebbero essere vantaggiose anche per proteggerli dalle radiazioni. Lo stesso Bradford pensa però che sia possibile spingere ulteriormente il limite fino a farlo arrivare anche a 30 giorni se non oltre. Si tratta in ogni caso di un concetto abbastanza diverso da quello noto come “crionica”: il punto difficile non è far “addormentare” gli eventuali astronauti, ma farli risvegliare senza che il corpo abbia subito dei danni. In ogni caso se il sistema della SpaceWorks, quello relativo alle due settimane di ”letargo”, due giorni di veglia e quindi ancora “letargo”, funzionasse, un viaggio su Marte si ridurrebbe da otto lunghi mesi a pochissime settimane di veglia intercalate da 15 pisolini di due settimane. Un vantaggio non da poco, anche per la psiche degli stessi astronauti.
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