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Da Chiang Mai (Thailandia) Nella fitta vegetazione della giungla della Thailandia del nord, tra le città di Chiang Mai e Chiang Rai, al confine con il Parco Nazionale di Khun Chae, c’è un piccolo villaggio di tibali Lahu. Un’antica popolazione originaria dell’altopiano del Tibet, è prima emigrata verso lo Yunnan nella Cina meridionale, e poi si è definitivamente trasferita in queste zone nel diciottesimo secolo. Divisi in cinque sottogruppi, i Lahu Nyi, Lahu Na, Lahu Shi, Lahu Hpu e il Lahu Shehleh, sono circa centomila in tutto il Sud-Est asiatico, mentre in Thailandia tra le venti e le sessantamila persone.

 



La strada per arrivare al villaggio nascosto sulle montagne del Doi Mod è tortuosa. La stagione delle piogge quest’anno è durata più del solito e molti tratti sono ancora ricoperti di fango. Per fortuna, il 4×4 della jeep con la quale mi sto spostando, fa bene il suo dovere. È mattina e i contadini si stanno recando alle risaie per iniziare la giornata di lavoro. Il viaggio scorre mentre li osservo. Tutto intorno, la natura. I banani offrono uno spettacolo unico. Alcuni monaci camminano a piedi nudi lungo la strada. Hanno appena finito di ricevere le offerte dai fedeli e stanno tornando nei loro templi. Questo rito quotidiano si chiama Tambum e serve per rinsaldare il legame tra i religiosi e la popolazione, dando la possibilità ai laici di “praticare la perfezione della generosità”, come antidoto all’avidità, che nel buddismo – la religione del Paese – viene considerato uno dei peggiori mali interiori.

 



Quando arrivo sotto l’imponente montagna, devo abbandonare la macchina e proseguire a piedi. Un sentiero in salita mi porta all’interno di quella che loro considerano casa: la giungla. A tratti si respira a fatica e la luce del sole a stento penetra tra la boscaglia. Ad aspettarmi ci sono i fratelli Ja Wa di 28 anni e Ja Suu di 38. Sorridono tutti e due appena mi vedono. Ognuno ha un machete, una borsa tradizionale che porta a tracolla e il più piccolo ha sulle spalle un fucile da caccia, confermando la nomea di essere “cacciatori-guerrieri”. I Lahu hanno una loro lingua – che non dispone di una forma scritta – e per questo la comunicazione tra noi avviene a gesti. Non è la prima volta che incontro una popolazione tribale e l’esperienza mi insegna che un gesto vale più di mille parole. Così, dopo le presentazioni di rito, siamo tutti a nostro agio.

 



In passato questa popolazione viveva grazie al ricavato della vendita delle piantagioni di oppio. Oggi non più. La coltivazione è stata sostituita da frutta, verdura, cotone e numerosissimi tipi di fiori. Le donne, vestite con i loro abiti tradizionali, sono scese a valle e stanno lavorando nei campi. Alcune le ho incontrate mentre salivo. Le ore scorrono veloci ed è quasi ora di pranzo. Bisogna accendere il fuoco. Mentre Ja Wa si procura la legna, Ja Suu con il machete inizia a scolpire il bambù per costruire piatti e bicchieri. Li guardo e rimango incantato. Il fuoco sta prendendo. Le fiamme si alzano al cielo. Un cielo azzurro, limpido. Mangeremo pollo e riso. Prima di iniziare, però, Ja Wa prende una foglia di banano, ci mette un po’ di cibo e la appoggia su un tronco. Lo guardo e mi fa capire che è un’offerta per gli spiriti della montagna, per ringraziarli di quello che ogni giorno fanno per i Lahu. Sarà così per tutti i pasti a venire. Aspettiamo qualche minuto e iniziamo a mangiare anche noi.

 



Di religione animista, questa popolazione ha un contatto profondo con la natura che li circonda. Il loro principale Dio è Geusha, che viene considerato il creatore dell’universo e di tutta l’umanità. Tutti i maggiori villaggi Lahu, che sono composti da tradizionali case in legno, hanno un tempio dedicato a questa divinità, ma nessuno straniero ci si può avvicinare. Geusha, infatti, secondo la loro credenza, ha il potere di decidere la sorte di tutti. Anche gli spiriti, che loro chiamano Ne, buoni o cattivi che siano, sono molto importanti per questa tribù. Mi spiegano che quelli che vivono nella foresta, fuori dal villaggio, sono molto temuti e per questo vengono rispettati maggiormente. “Se offesi – mi dicono possono possedere le persone”. Solo lo sciamano del villaggio, che nella loro lingua si chiama Keh Lupa, è in grado di fare da intermediario tra gli abitanti e Geusha. E sempre lui è l’unico che può celebrare i riti di guarigione ed esorcismo, allontanando tutti gli spiriti maligni.

 



Ora che sono qui, mentre vivo in pieno la quotidianità di questo popolo ancestrale, fuori da ogni collocazione della società moderna, sono affascinato nell’osservare tutti i loro comportamenti. E mi vengono subito in mente le parole di Walter Bonatti, che nel suo Un mondo perduto. Viaggio a ritroso nel tempo, racconta i suoi numerosi viaggi tra molte popolazioni indigene. “Ciò che distingue soprattutto tali uomini semplici da tutti gli altri più emancipati sono la forza, l’ingegno, la serenità, la capacità di sopravvivere in un mondo inospitale ed insidioso dove ognuno di noi morirebbe inevitabilmente e rapidamente”. E ancora, scrive: “È dalla sopravvivenza di questa gente, veri fossili viventi, che ci è possibile misurare le qualità di chi, senza saperlo, ha vissuto e vive tuttora in armonia con tutte le cose. Ciò che è questa gente, ciò che sanno fare e possono fare, questi figli della natura, è cosa che certo non si insegna a casa nostra, né forse riusciremmo più noi ad apprenderla”.

 



Dopo tre giorni passati insieme a loro, per me è ora di andare. Di tornare in pianura, tra il caos della città. Mi accompagnano fino alla macchina. Ci salutiamo con la promessa che racconterò la loro storia e che, prima o poi, tornerò a trovarli, anche per dargli le foto che ho scattato. Lo farò sicuramente presto.

Fonte: http://www.occhidellaguerra.it

Foto di Fabio Polese.

 

 

 

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